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Emofilia. I farmaci di nuova generazione funzionano meglio e fanno risparmiare


A dirlo uno studio pubblicato su New England Journal of Medicine che ha visto la collaborazione italiana: i fattori di coagulazione di nuova generazione sono meno immunogenici dei precedenti, dunque risultano più sicuri e anche più economici per la Sanità Pubblica.

22 GEN - L'emofilia è una malattia di origine genetica, dovuta ad un difetto della coagulazione del sangue. Nell’emofilia A, la forma più grave che ha un’incidenza di un caso ogni 10.000 soggetti, è presente una forte carenza del fattore VIII della coagulazione, proteina prodotta dal fegato: il deficit causa negli emofilici emorragie di gravità variabile, anche a rischio per la vita, a seconda della carenza di attività del fattore coagulante. La profilassi contro la malattia consiste nella  somministrazione del fattore mancante, che però può far sviluppare una risposta immunitaria, che rende vano il trattamento. Oggi però, una ricerca pubblicata su New England Journal of Medicine dimostra come i farmaci di terza generazione a molecola integra possano in parte risolvere questo problema: i nuovi fattori VIII ricombinanti sono infatti meno immunogenici di quelli di seconda generazione.
 
Lo studio, che ha visto la collaborazione di ricercatori italiani dell’Ospedale Gaslini di Genova e della Fondazione IRCCS Ca’ Granda di Milano, ha infatti concluso che “tra i prodotti di Fattore VIII ricombinanti a molecola integra, quelli di seconda generazione sono associati ad un rischio maggiore di sviluppo di inibitori se comparati a quelli di terza generazione”.
Si tratta del primo studio al mondo, durato oltre 10 anni e condotto a livello internazionale, che ha messo a confronto tutte le tipologie di Fattore VIII per la cura di questa malattia rara, che nella sua forma congenita colpisce quasi totalmente gli individui maschi e normalmente viene trasmessa dalla madre al figlio. Obiettivo dello studio è stata la valutazione dell’insorgenza degli inibitori relativamente al tipo di Fattore VIII utilizzato e ad un eventuale passaggio da uno ad un altro (switch). Sui 574 pazienti che sono stati oggetto della ricerca 177 hanno sviluppato gli inibitori; 116 di questi ne hanno sviluppato uno ad alto titolo.
I pazienti arruolati erano tutti nati tra il 2000 e il 2010 e classificati come PUPs (Previously Untreated Patients), ossia pazienti ai quali è stato somministrato per la prima volta un farmaco per l’emofilia.
 
Una delle complicanze più gravi legate alla profilassi antiemofilica è rappresentata dallo sviluppo degli inibitori, ossia degli anticorpi che l’organismo sviluppa in risposta alla somministrazione del fattore mancante, rendendo di fatto inutile l’azione del farmaco.
In Italia questa complicanza riguarda circa il 30% dei pazienti. Un più basso livello di immunogenicità significa dunque ridurre il rischio di sviluppo degli inibitori. La somministrazione di un Fattore VIII meno immunogenico ha quindi un doppio vantaggio: la maggiore sicurezza della terapia ed un minore costo per la Sanità Pubblica. Trattare un paziente con inibitore comporta l’avvio di specifici protocolli terapeutici che ad oggi rappresentano la spesa più alta che il Servizio Sanitario Nazionale sostiene per l’emofilia, i cui costi per il trattamento di un singolo paziente possono raddoppiare o addirittura triplicare. “Questo studio porta evidenza scientifica sulle differenze, talvolta importanti, che possono esserci tra i farmaci biotech. Purtroppo la crisi dei sistemi economici e la crescente pressione sulla finanza pubblica possono costringere gli stakeholders della sanità a ricercare soluzioni di risparmio che possono passare dalla assunzione di perfetta sostituibilità tra un farmaco e un altro”, ha commentato Giuseppe Turchetti, Professore di Economia e Management presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. “Come dimostra questo studio, livelli di immunogenicità più bassi di una molecola antiemofilica ricombinante significano un ridotto rischio di sviluppo degli inibitori (una grave complicanza per il paziente emofilico) e quindi una minore necessità di ricorrere in seguito a trattamenti di immunotolleranza. Questo risultato ripropone in modo forte la necessità di orientare anche le valutazioni economiche in una direzione che tenga conto di tutte le implicazioni associate a una terapia farmacologica, sia quelle di breve che di medio-lungo periodo. È solo tenendo conto di tutte le conseguenze associate a un approccio terapeutico e adottando un orizzonte temporale adeguato, infatti, che si può giungere a valutazioni economiche veramente informative per i decision makers in una prospettiva di gestione costo-efficace delle risorse".

22 gennaio 2013
© Riproduzione riservata

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