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Congresso cardiologi Usa/3. Cambiare la valvola, senza aprire il torace con interventi mini invasivi

di Maria Rita Montebelli

Una serie di studi presentati al congresso dell’American College of Cardiology confermano l’irrefrenabile crescita delle procedure mini-invasive nel trattamento delle malattie valvolari cardiache, sia per quanto riguarda la valvola aortica che la mitrale. E l’età non sembra rappresentare più un problema, visto che in media i pazienti trattati con queste metodiche hanno più di 80 anni.

16 MAR - Quando il restringimento della valvola aortica diventa importante, permettendo il passaggio solo un filo di sangue, l’unica possibilità di trattamento è la sostituzione della valvola stessa. La stenosi aortica serrata è però una condizione che si verifica in genere in pazienti molto anziani e fragili, fatto questo che rende molto difficile ricorrere ad un intervento di cardiochirurgia tradizionale a cuore aperto. Ma fortunatamente, il terzo millennio ha reso disponibili delle alternative mininvasive per risolvere il problema anche per questa tipologia di pazienti.
 
Studio PARTNER I. I risultati a 5 anni dello studio PARTNER I, presentato al congresso dell’American College of Cardiology a San Diego e pubblicato in contemporanea su Lancet, dimostrano che il posizionamento transcatetere della valvola cardiaca SAPIEN rappresenta un’opzione interessante per i pazienti con stenosi aortica grave, ritenuti troppo ad alto rischio per affrontare un intervento di cardiochirurgia tradizionale.
 
Lo studio ha assegnato in maniera randomizzata 699 pazienti ad alto rischio alla sostituzione della valvola aortica attraverso un intervento cardochirurgico tradizionale o per mezzo della tecnica transcatetere (TAVR), una procedura meno invasiva che utilizza una piccola intelaiatura di metallo contenente una valvola di materiale bovino, che viene espansa mediante un palloncino e posizionata all’interno della valvola malata attraverso un catetere vascolare.
 
“La vera sorpresa di questo studio – commenta Michael Mack, direttore del dipartimento cardiovascolare presso il Baylor Scott  and  White Health di Dallas – è che non ci sono state sorprese, nel senso che i risultati a 5 anni confermano quelli degli studi precedenti, dimostrando la sostanziale equivalenza delle due metodiche.”
 
A 5 anni, i tassi di mortalità e di ictus sono risultati sovrapponibili nei due gruppi di pazienti: il 67,8% per quelli trattati con la TAVR e il 62,4% per quelli sottoposti ad intervento cardochirurgico risultavano deceduti, con una sopravvivenza media di 44,5 mesi dopo la TAVR e 40,6 mesi dopo l’intervento chirurgico. Un ictus si era verificato nel 15,9% dei pazienti TAVR e nel 14,7% di quelli sottoposti ad intervento tradizionale.
 
Il vero tallone d’Achille della TAVR si è confermato il leak paravalvolare, risultato presente nel 14% dei pazienti sottoposti a TAVR, contro appena il 2,1% di quelli sottoposti ad intervento cardochirurgico. A distanza di 5 anni, l’esistenza di un tasso maggiore di leak risultava ancora associato ad una maggiore mortalità: i pazienti con leak importante presentavano un tasso di mortalità del 9% superiore a quelli con leak lieve. Di recente è messa a punto una valvola per TAVR di terza generazione mirata a ridurre il problema del leak paravalvolare, che al momento è ancora in fase sperimentale. Un altro segnale di alert emerso nel gruppo sottoposto a TAVR è quello di un deterioramento della funzionalità renale.
 
Studio CoreValve U.S. Pivotal High Risk. Ulteriori conferme per la TAVR arrivano da un altro studio presentato a San Diego; in questo caso si tratta dei risultati a due anni del CoreValve U.S. Pivotal High Risk Trial che ha interessato pazienti con stenosi aortica serrata ad elevato rischio di mortalità per intervento cardiochirugico. Il tasso di mortalità ad un anno è risultato significativamente inferiore per i 390 pazienti sottoposti a TAVR, rispetto ai 357 pazienti sottoposti ad intervento cardiochirugico tradizionale.
 
“Il dato della sopravvivenza – commenta Michael Reardon, professore di Ricerca Cardiovascolare presso l’Ospedale Metodista di Houston e primo autore dello studio – è risultato statisticamente superiore con a TAVR e confermato a due anni. Abbiamo rilevato che il vantaggio sulla sopravvivenza tende effettivamente ad aumentare col tempo con la TAVR; la differenza assoluta i mortalità per tutte le cause tra i due gruppi di pazienti è risultata a favore della TAVR; in questo gruppo la sopravvivenza è risultata del 4,8% superiore rispetto al gruppo trattato con intervento chirurgico tradizionale a un anno e arrivava al 6,4% a due anni.”
 
Vantaggi con la TAVR anche per quanto riguarda il tasso di ictus che ha fatto registrare in questo gruppo un 10,9% contro il 16,6 % rilevato tra i pazienti sottoposti ad intervento cardochirurgico. Infine, il 29,7% dei pazienti trattati con TAVR ha presentato complessivamente un evento cardio o cerebro-vascolare maggiore, rispetto al 38,6% di quelli sottoposti ad intervento chirurgico.
 
“La durabilità – sottolina Reardon – è un fatto importante e non abbiamo osservato alcun deterioramento nella valvola TAVR; un’adeguata apertura valvolare e i gradienti pressori medi (parametri di qualità della valvola) sono risultati statisticamente superiori con la TAVR in ogni fase del trial”. Anche in questo caso il problema del leak paravalvolare è risultato superiore con la TAVR che ha fatto registrare un 6% di casi con leak da moderato a severo a un anno e del 6,1% a due anni. Gli autori sottolineano comunque che, a differenza di altri studi TAVR, in questo caso la presenza dileak non ha comportato un impatto sulla mortalità con questa valvola.
 
“Alla luce di questi risultati – afferma Readon – ci auguriamo che le attuali linee guida ACC/AHA vengano rivisitate nel punto in cui dicono che ‘la TAVR è un’alternativa ragionevole all’intervento di sostituzione chirurgica della valvola nei pazienti ad alto rischio, giudicati idonei dal team cardiologico’. I risultati di questo studio suggeriscono infatti che la TAVR effettuata con la valvola auto-espandibile dovrebbe rappresentare il trattamento di scelta per i pazienti con stenosi aortica sintomatica di grado severo ad aumentato rischio chirurgico”.
 
Un retino ‘acchiappa’ detriti per proteggere dall’ictus(Studio DEFLECT III). L’ictus rappresenta uno ‘spauracchio’ importante per l’intervento di TAVR; per cercare di limitarlo nel corso degli anni sono stati messi a punto dei device, una sorta di ‘retini’ che vengono posizionati durante la procedura all’interno dell’aorta per limitare il passaggio di materiale proveniente dalla valvola stenotica nel momento in cui viene riaperta. Una parte di questi detriti, se non bloccati i qualche modo, viaggia verso il cervello dove può appunto provacare problemi. Si ritiene che questa ‘pioggia’ di detriti sia la causa dell’aumentato tasso di ictus, che si osserva fino ad un anno dopo la procedura, ma anche degli elevati tassi di danno cerebrale a livello subclinico, che si manifestano con alterazioni cognitive più o meno evidenti.
 
Uno degli ultimi ‘retini acchiappa detriti’ è il TriGuard, studiato all’interno del trial DEFLECT III, presentato a San Diego. Il DEFLECT III è il primo studio clinico multicentrico  randomizzato su un device ‘proteggi-cervello’. Il TriGuard è una piccola rete che viene temporaneamente posizionata all’interno dell’aorta in corrispondenza dell’arco, dove nascono le tre arterie che portano sangue al cervello. Il DEFLECT III sarà condotto su un totale di 86 pazienti arruolati in Europa e in Israele; attualmente sono disponibili dati preliminari relativi a 83 pazienti, che dimostrano un notevole beneficio del TriGuard su diversi endpoint. Per quando riguarda la safety della procedura nei pazienti ricoverati, definita da un composito di eventi cardio e cerebrovascolari maggiori fino a 7 giorni dopo la TAVR, i tassi sono stati rispettivamente del 22,2% nei soggetti trattati con il nuovo device, contro il 31,6% di quelli del gruppo di controllo.
 
I tassi di mortalità per tutte le cause sono stati del 2,2% nei trattati con il TriGuard contro il 5,3% del gruppo di controllo; la stessa differenza è stata rilevata per ictus e sanguinamenti importanti.
 
“Proteggere il cervello è diventata una priorità da migliorare nei risultati per i nostri pazienti – commenta il primo autore dello studio Alexandra J. Lansky,  direttore dello Yale Cardiovascular Research Program,Yale School of Medicine – e rappresenta un nuovo importante obiettivo in cardiologia interventistica”.
 
M.R.M.

16 marzo 2015
© Riproduzione riservata

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