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Integrazione socio-sanitaria: se siamo ancora all’anno zero

di Ettore Jorio

Un importante segmento assistenziale quale è l’assistenza sociale viene trattato nel Paese, nonostante la pressante domanda in crescita a progressione geometrica, come una remota aspettativa sociale, per gran parte insoddisfatta, e non già come un diritto esigibile dai bisognosi e obbligatoriamente erogabile da parte delle istituzioni territoriali delegate ad hoc, Comuni e Regione non affatto sinergiche nel garantirne la corrispondente riscuotibilità sociale universale e indistinta.

26 GIU -

In questi giorni si discute tanto della integrazione tra il sistema sanitario e quello dell’assistenza sociale. Lo si fa nel mentre la istituita Cabina di regia (comma 793, dell’art. 1 della legge 197/2022) lavora sulla individuazione delle materie riconducibili a Lep e la determinazione dei valori economici garanti della loro sostenibilità universale.

Tuttavia, gli approfondimenti avvengono spesso in modo improprio, almeno per alcuni aspetti. Ciò perché si mettono insieme argomenti assistenziali disciplinati (anche) da regole diverse, trattati da istituzioni territoriali differenti e concretizzati con prestazioni essenziali segnatamente differenziate, seppure strettamente complementari tra loro. Le stesse, infatti, piuttosto che riguardare quelle attività di assistenza alla persona messe insieme nei Lea rivisitati nel 2017 (Dpcm 12 gennaio 2017), vengono in parte ricondotte alle prestazioni afferenti all’esercizio delle funzioni fondamentali dei Comuni, più esattamente della tipologia riguardante la “progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini” (art. 14, comma 27, del D.L. 78/2010) e, solo in parte, a quelle riferibile alla prestazioni sociosanitarie di cui all’art. 3 septies del vigente d.lgs. 502/1992.

Insomma, quella dell’assistenza sanitaria e dell’assistenza sociale sono due facce della stessa medaglia ma ancora tutta da coniare e mettere in circolazione, nonostante la presenza di una previsione costituzionale vecchia di 23 anni, cui il legislatore ordinario, statale e regionale, ha però assicurato tanta superficialità attuativa.

Nonostante questo, vengono messi su studi, analisi e iniziative che avrebbero dovuto trovare spazi di approfondimento da almeno dieci anni con la conseguenza di rendere incomprensibile l’impegno speso a fronte della generazione di ulteriori confusioni sui non addetti ai lavori e sulle istituzioni chiamate ad assicurare l’erogazione. Al riguardo, merita elogio la recente iniziativa di Federsanità, Anci e Agenas di istituire un “Osservatorio delle buone pratiche di integrazione sociosanitaria (OISS)”, con la previsione di un apposito Comitato Tecnico Scientifico, del quale mio onoro di farne parte.

Sul tema della assistenza sociosanitaria praticata, è da registrare un errore di ipotesi risalente ad una epoca vecchia di ben oltre un ventennio, che ha lasciato i bisognosi di assistenza sociale all’asciutto di prestazioni, anche indispensabili. Il tutto causato da una legge 8 novembre 2000 n. 328 venuta fuori (inconcepibilmente) dal Parlamento appena un anno prima della revisione del 2001 (legge costituzionale 18 ottobre 2001, promulgata a seguito dell’esito favorevole del coevo referendum confermativo) stranamente non affatto presaga della coeva previsione costituzionale che emarginava l’assistenza sociale nelle materie residuali, di competenza quindi esclusiva delle Regioni, che invero diedero poca importanza ad una simile opzione.

Di conseguenza, sono 22 anni che si registra una regolazione regionale (quasi) inesistente, se non limitata a rappresentare nel dettaglio i principi fondamentali recati dalla legge 328/2000, con il risultato di avere prodotto una normativa apposita delle Regioni non affatto all’avanguardia, per nulla consapevole delle loro situazioni differenziate anche in termini di crescita delle esigenza assistenziali manifestate da una popolazione segnatamente evolutiva nei segmenti anziani e con risorse tanto discriminate sul territorio nazionale da fare convivere ragioni di spesa connesse a quote capitarie ricche nel nord Italia e assolutamente povere nel Mezzogiorno. Finanche al di sotto della soglia del 70%.

Insomma, un importante segmento assistenziale quale è l’assistenza sociale viene trattato nel Paese, nonostante la pressante domanda in crescita a progressione geometrica, come una remota aspettativa sociale, per gran parte insoddisfatta, e non già come un diritto esigibile dai bisognosi e obbligatoriamente erogabile da parte delle istituzioni territoriali delegate ad hoc, Comuni e Regione non affatto sinergiche nel garantirne la corrispondente riscuotibilità sociale universale e indistinta.

Tutto questo, sebbene l’emissione del Dpcm 12 gennaio 2017 che - riparando all’errore e alla trascuratezza durata quasi 16 anni - ha insediato tra i Lea i già Liveas, scandendoli unitariamente nelle 71 pagine di cui si compongono i dodici allegati al provvedimento governativo recante, per l’appunto, la “Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all'articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502”.

Ma si sa, quando non si è attenti a sviluppare le politiche sociali, così come avviene da sempre nel nostro Paese, fioccano gli errori, le incomprensioni e le disattenzioni giuridiche. Nel caso delle prestazioni essenziali dell’assistenza sociale tali gap si complicano, dal momento che accade spesso che la mano sinistra non sa cosa abbia scritto in proposito la mano destra.

E’ accaduto infatti - a seguito di quel gran lavoro effettuato nel 2017 dopo circa cinquanta anni dalla riforma del 1978 che pretendeva che la sanità e il sociale fossero un tutt’uno - che la legge di bilancio per il 2022 (legge 30 dicembre 2021 n. 234), impegnasse ben 16 articoli (commi 150/171) per (ri)definire (ancora una volta) i LEPS, seppure provvisoriamente, e per creare ancora una volta un disordine concettuale in materia e, con essa, un’ulteriore disaggregazione all’interno delle prestazioni della salute.

Una tale situazione, oltre che generare disappunto e confusione generale e male esercitare da parte delle Regioni la loro competenza esclusiva in materia di assistenza sociale, contribuirà a mettere in seria difficoltà l’attuazione e l’applicazione del federalismo fiscale, con la previa individuazione delle materie riconducibili a LEP e l’individuazione dei costi e fabbisogni standard relativi alla loro sostenibilità. Non solo. Non darà modo di riparare l’errore di previsione, recato nella legge 42/2009 attuativa dell’art. 119 della Costituzione, di ritenere finanziabili i già Liveas attraverso il fabbisogno standard quantitativo (in quanto funzione fondamentale dei Comuni), determinabile con il metodo di cui al d.lgs. 216/2010, e non mediante il costo/fabbisogno standard di cui al d.lgs. 68/2011.

Uno svarione, questo, che renderà - sino alla sua radicale correzione normativa – impossibile la ineludibile sinergia tra i Comuni e le Regioni, attraverso i loro servizi sanitari regionali, erogativi delle prestazioni sociosanitarie.

Ettore Jorio



26 giugno 2023
© Riproduzione riservata


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