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Come uscire dal vicolo cieco delle “non riforme” in sanità. Il punto dopo la proposta di Confindustria e Confcommercio (quarta parte)

di Ivan Cavicchi

L’articolo che segue era già stato preparato proprio come gli altri che seguiranno ma oggi dopo l’exploit di Confindustria e Confcommercio non avrei scritto  nulla di diverso a parte la possibilità di dare un nome preciso ai nostri controriformatori

12 DIC - Me lo sentivo. Era nell’aria. Per questo alcune settimane fa ho proposto a Fassari una specie di tour de force per sensibilizzare la sanità sulla necessità di una  riforma seria per mettere fine tanto alle politiche  di definanziamento del governo che a quelle speculative  contro la sanità pubblica. L’altro ieri Confindustria e Confcommercio sono venute allo scoperto ed hanno lanciato  il “secondo pilastro universalistico” cioè contrapponendo la sanità relativa al reddito con quella assoluta del diritto. Il momento è quello buono: la gente è scontenta, la sanità tutta è scontenta, al governo quello che toglie alla sanità sembra non bastargli mai, le regioni ormai sono ridotte in ceppi. Tutto spinge i malati che possono pagare  verso il privato.
 
Quindi questa uscita pubblica me l’aspettavo. La proposta  è  la solita regolarmente  accompagnata da giustificazioni mendaci (la storia della sanità che rischia di “andare fuori mercato” l’ho trovata divertente).E’ da quando la Bindi ha recuperato con il DL 229 (1999)  i fondi integrativi del servizio sanitario nazionale (art 9) che non si danno pace: avere solo una funzione integrativa  a loro non va bene vogliono sostituirsi allo Stato per mettere le mani  in quel tesoretto definito  “out of pocket”.
 
Oggi la loro proposta si chiama “sanità complementare una sanità spaccata in due come una mela:
· quella per i non abbienti a carico dello Stato;
· quella per gli abbienti a carico dei loro redditi.
 
Naturalmente questi grandi imprenditori che nei convegni ci parlano con prosopopea  di corporate social responsibility, per farsi  i loro interessi vogliono l’aiuto dello Stato, cioè chiedono al governo di togliere le tasse a aziende e cittadini per incentivarli ad  aderire  ai “fondi  sanitari complementari”. Per farli contenti il  governo dovrebbe  definanziare tre  volte la stessa sanità pubblica:
· riducendo il suo ambito di applicazione;
· definanziando il fisco in generale  rinunciando a delle entrate fiscali;
· riducendo i contribuiti a disposizione della sanità pubblica.
 
E’ come chiedere alla Stato di colpire il pubblico per favorire la concorrenza contro il pubblico. Cioè di fare dumping sociale. La cupidigia smodata e biasimevole della controriforma ,quindi bussa alle nostre porte ,e sono contento di aver avuto l’idea di discutere su questo giornale  di riforma e di riformatori. Quello che chiedono gli imprenditori non è proprio “a costo zero” come loro dicono e probabilmente al punto in cui ci troviamo al governo non  conviene  sbaraccare il sistema pubblico la cui spesa è  tutto sommata bassa e sempre più forzatamente sotto il suo controllo diretto. Meno che mai al governo conviene dare luogo, a due anni dalle elezioni, ad un processo di privatizzazione così destabilizzante e così impopolare. Non credo che Renzi si farà impallinare sulla sanità anche se il Pd è da tanto tempo tentato di saltare il fosso. Tuttavia io credo che  la controriforma debba essere respinta e combattuta con una riforma di ben altro tenore e con ben altre finalità.
 
L’articolo che segue era già stato preparato proprio come gli altri che seguiranno ma oggi dopo l’exploit di Confindustria e Confcommercio non avrei scritto  nulla di diverso a parte la possibilità di dare un nome preciso ai nostri controriformatori. .
 
Cosa vuol dire riformare il fabbisogno, o il consumo di sanità, o riformare  l’uso della sanità, o se preferite cosa vuol dire riformare l’idea di tutela, per garantire il governo della spesa e quindi un grado accettabile di sostenibilità? Significa prima di tutto che l’uso della sanità ne determina il costo e quindi che un certo uso può o contenerlo o accrescerlo.
 
E’ ambiguo dire che bisogna qualificare la spesa sanitaria meglio è parlare di dequantificare  la spesa riqualificandone  cioè riformandone l’uso. Nel riuso ci sono anche quelle misure che la  liberano da tutti quei costi che la rendono relativamente insostenibile. La qualificazione senza la dequantificazione è ingannevole.
 
La questione sostenibilità da 40 anni a questa parte è una questione di quantità tout court perché il fabbisogno è prima di tutto un problema di quantità finanziaria:
· gli sprechi della sanità, le diseconomie, la medicina difensiva, gli abusi ,la sua incipiente regressività, significano un certo tipo di uso quindi una certa quantità...ma anche un certo ospedale, una certa medicina di base, certi distretti ,certi medici e infermieri....significano un certo tipo di uso quindi una certa quantità;
· l’appropriatezza, il lavoro responsabile, la prevenzione ecc al contrario significano un altro tipo di uso quindi un’altra quantità...ma anche un ospedale diverso, una medicina di base diversa, un distretto diverso, degli operatori diversi  significano un certo tipo di uso quindi una certa quantità.
 
La riforma che io teorizzo per oppormi alle politiche di definanziamento del sistema e a quelle contro riformatrici di Confindustria e Confcommercio, deve abbassare la quantità di spesa, quindi rendere meno costoso il sistema, sapendo che per abbassarne il costo devo riformarne l’uso. Fino ad ora nonostante ben tre riforme sanitarie  l’uso della sanità non è stato sostanzialmente  riformato, salvo alcuni eccezioni, come avremmo dovuto e potuto fare (per tante ragioni),o almeno quello che è stato fatto in 40 anni non ci ha evitato oggi ne la gogna del definanziamento programmato ne il rischio di essere controriformati.
 
Chi propone ridicole tesi sull’insostenibilità della sanità, sulla sua non irrifinanziabilità, sull’inevitabilità di una privatizzazione parziale  del sistema, è perché non vuole  o non sa cambiare l’uso del sistema sanitario perché in quell’ uso si nascondono o i suoi  desideri di invarianza, i suoi limiti riformatori e anche perché no i suoi interessi personali.
 
Torniamo alle condizioni iniziali del sistema e all’effetto farfalla. Circa 40  anni fa abbiamo fatto una riforma che ha cambiato il sistema e che avrebbe dovuto garantire  sostenibilità .Come sono andate le cose? 40 anni fa il consumo e l’uso di sanità è schizzato in aria(evoluzione demografica, ruolo dell’innovazione, espansione della domanda di salute, ecc)trascinando in questa crescita la spesa mutualistica. In una parola le mutue muoiono perché finanziariamente insostenibili. Il servizio sanitario universale al contrario nasce per risolvere questo problema. Il sistema mutualistico  esaurisce la sua funzione perché:
· vistoso è il divario  tra ‘arretratezza della sua offerta  e la nuova domanda;
· culturalmente fuori gioco perché la medicina che offre è  incongrua alla nuova domanda di salute (ospedalie e ambulatori);
· finanziariamente debitoria perché cronicamente in disavanzo;
· troppo dispendioso anche a causa della molteplicità dei suoi centri di spesa(ogni ente mutualistico erogava prestazioni diverse perché queste erano definite  da diversi rapporti di lavoro).
 
L’universalismo al di là dei suoi innegabili valori morali e sociali aveva la funzione pratica di superare le tante diversità mutualistichecon l’uniformità dei trattamenti a scala nazionale perché 40 anni fa l’uniformità cioè l’universalismo non era considerato un problema ma una misura di governo della spesa e quindi una funzione di sostenibilità. Quello che in un certo senso oggi alcuni  pensano di fare con i costi standard.
 
Rendere uniformi i costi per rendere universale l’offerta a scala regionale e nello stesso tempo meno costosa.  Oggi Confindustria e Confcommercio  vorrebbero fare il contrario ritornare a trattamenti differenziati: gli indigenti da una parte e dall’altra differenziare l’assistenza sanitaria  in base al reddito, perché l’uniformità dei trattamenti  cioè l’universalismo, i lea, ecc  oggi sono  considerati paradossalmente  un problema di sostenibilità.
 
Oggi è vero che esiste il problema delle diseguaglianze regionali e territoriali causate dai famosi 21 sistemi sanitari regionali, (anche se gli squilibri sono sempre esistiti) ma si tratta di contraddizioni al valore dell’uniformità non di discriminazioni dovute a sistemi sanitari concepiti come discriminanti quali erano le mutue cioè come sistemi difformi concepiti su fabbisogni difformi. Cioè le diseguaglianze esistono non perché non c’è l’universalismo ma perché esso è negato dalla difformità dei fabbisogni creata dalla difformità della struttura dell’offerta. Ora è illogico rispondere alla negazione dell’universalismo con la difformità dei trattamenti come propongono i nostri contro riformatori.
 
Ma anche rispondere  con i costi standard (a parte la complessità tecnica e etica  insita nella standardizzazione del costo) è illogicose questa difficile standardizzazione  non è la conseguenza di quella dei consumi. Standardizzare i costi a consumi difformi non è privo di aporie.  Il consumo è obbligato in quanto tale  a stare negli standard. Differenziare i sistemi di assistenza significa prendere atto delle diseguaglianze e istituzionalizzarle mettendole a sistema, standardizzare i costi significa semplicemente standardizzare l’offerta di prestazioni  per costringere i  consumi ad adeguarvisi . In entrambi i casi il consumo non è riformato  ma in un caso è differenziato e nell’altro contingentato. Quello che invece andrebbe fatto è concepire l’universalismo come riforma del fabbisogno quindi del consumo (domanda/offerta) perché se è un certo consumo che rende universale il sistema dell’offerta esso diventa la chiave di volta della sostenibilità.
 
Ripetiamo la domanda: cosa vuol dire riformare il consumo o l’uso o il fabbisogno?Vuol dire  fare oggi quello che avremmo dovuto fare da un pezzo ma che per tante ragioni non abbiamo fatto . Ma dove è che abbiamo toppato? Perché la riforma  non ha riformato? Per rispondere di nuovo è necessario tornare alle condizioni iniziali. La transizione tra mutualismo e universalismo avrebbe dovuto garantire un cambio di paradigma intervenendo su almeno su 5 livelli:
· a partire dalla nuova domanda di salute riformare l’idea strategica generale di tutela (da una idea riduttiva  di cura della malattia  ad una più estesa e più complessa idea di salute) ,cioè dalla mutual  health policy alla healthy public policy);
· riformare l’organizzazione dell’offerta (da un sistema di servizi fatto solo da ospedali e ambulatori , ad un sistema di servizi integrato  per la costruzione della salute;
· riformare le prassi  mutualistiche (nuovi approcci interdisciplinari, nuove integrazioni tra i servizi e tra i servizi e il territorio, nuove relazioni, ecc);
· riformare il  lavoro  professionale con una riforma della formazione di base, delle professioni, quindi derivando da queste riforme una nuova idea di lavoro, nuovi statuti giuridici per gli operatori ,nuovi ruoli e nuove funzioni;
· suggellare il nuovo rapporto domanda/offerta con il governo sociale della sanità.
 
Come è andata? E’ andata che:
· la riforma strategica dell’idea di tutela (quella che avrebbe dovuto teoricamente riformare il modello di consumo sanitario e quindi il fabbisogno e risolvere i problemi di insostenibilità finanziaria),  è rimasta sulla carta (ancora oggi non si fa salute primaria, ancora oggi i processi integrativi sono una chimera, ancora oggi le prassi cliniche sono irrelate, ancora oggi  gli operatori lavorano come lavoravano ai tempi delle mutue, ancora oggi i modelli dei servizi  sono di tipo mutualistico, ecc);
· ad una riforma fisica  della struttura del sistema sanitaria (hardwere) non è seguita nessuna significativa  riforma culturale della sovrastruttura (con l’unica eccezione della salute mentale e all’inizio dei consultori e in parte con i dipartimenti per la prevenzione) cioè le tre K  sono rimaste invariate (knowledge (conoscenza),know-how (competenza nel modo di fare) know where (sapere dove fare).
 
Conclusioni:
· pur in un sistema di servizi diversamente organizzato l’operatività ,la prassi, le modalità della tutela ancorché  riformata nei suoi postulati, sono rimaste ferme alla cultura  mutualistica;
· il modello di consumo è rimasto sostanzialmente invariato perché le caratteristiche fondamentale dell’offerta,a parte le sue dimensioni, sono  rimaste sostanzialmente invariate cioè con spiccate caratteristiche mutualistiche;
· il consumo è cresciuto ma restando di tipo mutualistico;
· il problema di sostenibilità delle mutue è passato semplicemente irrisolto al servizio sanitario nazionale e come tale ripasserà alle mutue o ai fondi se si farà la controriforma.
 
Vediamo l’effetto farfalla:
· il servizio sanitario che è venuto fuori dalla riforma del 78 si è configurato nel tempo sempre più come una gigantesca super mutua con l’unica differenza di garantire a tutti teoricamente uniformità di trattamento per poi perdere tale uniformità a causa dell’eccessiva frammentazione dei sistemi sanitari regionali. Oggi le Regioni è come se fossero 21 sistemi mutualistici diversi;
· l’uso e il consumo nonché il fabbisogno  di sanità nel nuovo servizio sanitario nazionale rispetto alle mutue è rimasto sostanzialmente invariante ma non il suo costo.. la domanda è cresciuta  e l’offerta si è solo ampliata ma senza ripensarsi;
· la spesa immediatamente dopo il varo della riforma comincia a crescere  diventando fin da subito quello che è ancora ora  cioè il più grande assillo della sanità;
· la spesa sanitaria con la riforma del 78 pur complessificandosi aggiungendo servizi a servizi, professioni a professioni, funzioni a funzioni, proprio perché l’idea mutualistica  di tutela non è mutata come non è mutato l’uso del sistema, non si è dequantificata ma al contrario si è iperquantificata. .
 
Perché serve una nuova riforma?Perché ciò che avremmo dovuto riformare tanto tempo fa non è stato riformato e perché tutte le soluzioni volte a risolvere oggi  il presunto problema di sostenibilità cercano le soluzioni come Confindustria e Confcommercio nei posti sbagliati  e nei modi sbagliati lasciando inalterati i problemi dell’uso e del fabbisogno. Che senso ha modificare la natura pubblica del sistema senza risolvere nessuna delle sue contraddizioni storiche, quindi lasciando semplicemente che  il fabbisogno cresca senza cambiarne il modello? Oggi dopo circa 40 anni le contraddizioni proprie all’insostenibilità del  mutualismo che si dicevano sopra sono ancora tutte davanti a noi e  quelle anime semplici degli imprenditori non pensano ovviamente di risolverle con un cambio di sistema,ma solo di specularci sopra. 
 
Ivan Cavicchi
 
Leggi la prima, la seconda e la terza parte

12 dicembre 2015
© Riproduzione riservata


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