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La balla dell’ineluttabilità di un sistema “multipilastro” in sanità

di Ivan Cavicchi

I dati della Sda Bocconi sulla spesa sanitaria privata evidenziano che non c’è nessuna necessità logica in ragione della quale due o più sistemi concorrenti debbano offrire tutti gli stessi Lea. E’ più logico che il sistema pubblico offra lea e che essi siano semplicemente integrati con quello che i lea non prevedono.

08 NOV - Se la maggior parte della spesa privata compra prestazioni che rientrano nell’ambito classico delle mutualità integrativa allora perché spingere per fare delle mutue sostitutive? E più in generale perché pompare con la defiscalizzazione il welfare aziendale in evidente concorrenza con la sanità pubblica? E infine perché fare un sistema multi-pilastro a tutti costi?
 
Non è meglio aggiustare il sistema pubblico rifinanziandolo per quelle prestazioni che vanno oltre l’ambito strettamente integrativo e definire meglio la funzione di integrazione delle tutele riconfermando però il sistema universalistico?
 
Queste sono le domande che subito mi sono venute in mente dopo aver letto i risultati della ricerca svolta dall’Osservatorio sui Consumi Privati in Sanità (OCPS) della School of management della SDA Bocconi, in collaborazione con il Fondo Sanitario Integrativo del Gruppo Intesa Sanpaolo, e pubblicata in anteprima ieri da questo giornale. (Non ripeterò i dati analitici della ricerca che potrete trovare dettagliati nell’articolo di Lucia Conti)
 
Se è vero come dice la ricerca che l’esborso da parte dei cittadini non è correlabile con i sistemi sanitari pubblici che stanno peggio ma al contrario con quelli che stanno meglio (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) allora cade la tesi che l’out of pocket sia funzione delle carenze del sistema pubblico.
 
Se è vero quello che dice la coordinatrice della ricerca Valeria Rappini che i fattori che influenzano maggiormente il ricorso alla spesa sanitaria out of pocket sono da ricercare nei differenziali di reddito individuale, che consentono ai cittadini delle regioni più ricche di spendere con più facilità, allora perché mai dovrei defiscalizzare nel caso la spesa fosse intermediata da una mutua o da un fondo questa spesa nel momento che essa è semplicemente dipendente dalla capacità di reddito delle persone?
 
Se è vera l’interpretazione che di questi dati viene data dai responsabili della ricerca e cioè che in alcune Regioni vi è una forte cultura della salute sollecitata di fatto dalla qualità dei servizi che assumerebbero quasi una funzione pedagogica insegnando ai cittadini che la salute è così importante da meritare oltre la tutela pubblica anche una spesa privata, allora perché non fare un ragionamento per incentivare coloro che investono non in mutue ma in salute primaria?
 
Sino ad ora l’argomento forte usato dai sostenitori del sistema multi-pilastro è stata la questione dell’out of pocket per dimostrare esattamente ciò che la ricerca in realtà disconferma.
 
Vale a dire:
· la complementarietà della spesa privata rispetto a quella pubblica,
· i loro rapporti di fungibilità causati dall’insufficienza di uno dei due,
· la necessità inderogabile di compensare la tutela pubblica con altre tutele concorrenti,
· l’esplosione della domanda di cura.
 
Mi sembra che, da quello che emerge dalla ricerca, tutto questo si appalesi essenzialmente come propaganda.
 
La ricerca inoltre non solo fa cadere i luoghi comuni sulla spesa privata ma destituisce di fondamento tutte le regioni “propagandistiche” per l’appunto che sino ad ora sono state alla base di quello che si definisce Welfare aziendale.
 
Le regioni che spendono di più in sanità privata sono anche le più ricche e non solo con buoni servizi ma anche con gradi di occupazione più elevati. Il welfare aziendale quindi sarebbe più logico farlo (ammesso e non concesso di farlo) nelle regioni meno ricche e con tassi di occupazione più bassi.
 
Ma come si sa questo è impossibile perché la sua natura è strettamente legata al lavoro e alla contrattazione. In altre parole sarebbe più logico integrare la sanità pubblica con il welfare aziendale laddove la sanità sta peggio anche se laddove sta peggio non ci sono le condizioni economiche produttive per farlo.
 
Viene fuori così la vera natura del welfare aziendale che è strettamente legata ad una politica economica volta a ridurre il costo del lavoro e ad accrescere il reddito di impresa ma che con i problemi della sanità pubblica non c’entra niente.
 
Il welfare aziendale è un inganno, consumato in tutti i sensi, a danno dei lavoratori
 
In sostanza non c’è nessuna necessità logica che giustificherebbe il welfare aziendale come inevitabile nei confronti dei problemi di salute dei cittadini dal momento che i suoi scopi con la salute delle persone alla fine c’entra molto poco. Ripeto le mutue non sono fatte per chi lavora ma per far guadagnare di più l’impresa.
 
Infine questa battaglia che le assicurazioni stanno facendo per aprire anche dal punto di vista formale le mutue a tutti, al fine di sancirne una volta per tutte la funzione sostitutiva.
 
Anche in questo caso dai dati che ci ha mostrato la ricerca non c’è nessuna necessità logica in ragione della quale due o più sistemi concorrenti debbano offrire tutti gli stessi Lea. E’ più logico che il sistema pubblico offra lea e che essi siano semplicemente integrati con quello che i lea non prevedono.
 
Questo vuol dire che le balle dell’universalismo impossibile, della inevitabilità dell’universalismo selettivo e quell’altra che non è più possibile dare tutto a tutti, sono per l’appunto balle.
 
Ivan Cavicchi

08 novembre 2017
© Riproduzione riservata


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