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Vaccaro (Censis): “È tempo che di sanità si ragioni nel quadro più generale del Welfare”

di Ester Maragò

“I margini di manovra per recuperare la crisi del sistema ci sono, ma mettere mano all’assetto universalistico è un errore”. La pensa così Maria Concetta Vaccaro, responsabile Welfare del Censis. L'abbiamo intervista all'indomani della presentazione del Rapporto 2011

03 DIC - "Accanirsi sui tagli al welfare può diventare rischiosissimo per il sistema nel suo complesso. Lo stress test della crisi ha dato ragione al fatto che il welfare ha comunque garantito sostenibilità alle famiglie ed evitato effetti drammatici di caduta occupazionale: dagli ammortizzatori sociali alla cassa integrazione in deroga, fino ai nipoti che sono sostenuti dai nonni e alle pensioni che sono servite a pagare le badanti". E la sanità? "Per affrontare i problemi della sanità dobbiamo ragionare ampliando il campo d’azione, e in un’ottica di welfare". Così Maria Concetta Vaccaro che da anni guida lo staff di ricercatori del Censis.
 
Dottoressa Vaccaro, la contrazione dei finanziamenti in sanità quali rischi produrrà nella società italiana? Soprattutto è possibile pensare di fare fronte alle difficoltà solo con i risparmi?
Innanzitutto dobbiamo partire da un presupposto indispensabile: per affrontare i problemi della sanità dobbiamo ragionare ampliando il campo d’azione, e in un’ottica di welfare. I comparti del nostro sistema sono strettamente connessi, ogni intervento che viene attuato in ogni settore specifico finisce per impattare su un’altro. E questo è un dato che si tende ad ignorare. Un esempio concreto: la questione delle pensioni. La revisione del sistema pensionistico, con una riduzione drastica della disponibilità economica per i futuri pensionati, produrrà inevitabilmente ripercussioni sul settore socio sanitario e assistenziale. In sostanza, la soluzione all’italiana delle badanti che ha alleggerito il carico di lavoro delle famiglie, e che ha fin ora ha consentito al sistema di mantenersi in equilibrio, non sarà più praticabile da un punto di vista strettamente economico. Questo manderà in tilt gli equilibri di moltissime famiglie, soprattutto se il territorio non sarà in grado di dare risposte garantendo continuità assistenziale. E alla luce dell’invecchiamento delle popolazione gli scenari non potranno che peggiorare. Quindi tagliare da una parte creerà problemi negli altri bacini senza risolvere i problemi dell’offerta sanitaria e socio assistenziale.

Secondo lei ci sono ancora margini di manovra?
Certamente. Bisogna però prestare molta attenzione: accanirsi sui tagli al welfare può diventare rischiosissimo per il sistema nel suo complesso. Lo stress test della crisi ha dato ragione al fatto che il welfare ha comunque garantito sostenibilità alle famiglie ed evitato effetti drammatici di caduta occupazionale: dagli ammortizzatori sociali alla cassa integrazione in deroga, fino ai nipoti che sono sostenuti dai nonni e alle pensioni che sono servite a pagare le badanti. C’è stata una risposta ai problemi della crisi che ha garantito, come non è successo in nessun altro paese europeo, una capacità delle famiglie di far fronte alle emergenze, e al sistema stesso.

Ma bisogna pensare comunque ad una riforma strutturale?
Esiste sicuramente un problema di ristrutturazione. Il welfare va quindi razionalizzato. Ma con interventi sostanziali. Non si possono attuare aggiustamenti marginali e solo, appunto, in chiave di taglio. Il tempo dei proclami è finito.

Quali sono le soluzioni?
In primis occorre intervenire con intelligenza sulla distribuzione della spesa sociale tra i comparti. Bisogna capire come la spesa riesce a rispondere alla richiesta di beni sostanziali. Questo significa, come ho già detto, applicare il principio dei vasi comunicanti: prima di tagliare dobbiamo ricordare che c’è una parte di spesa previdenziale e di spesa sanitaria che pagano l’assistenza.
E ancora, la razionalizzazione dei servizi e delle prestazioni deve essere affrontata in un quadro di evoluzione epidemiologica. Se non si ragiona in questi termini, è inutile parlare di riforma del welfare. L’invecchiamento della popolazione è un problema reale. L’impatto delle malattie degenerative agisce sul settore sanitario, assistenziale, familiare. Tutto questo va considerato in un’ottica di investimenti futuri. Così come occorre intervenire seriamente sulle politiche sanitarie di prevenzione.

Dovendo fare i conti con una coperta economica cortissima, come ne usciamo?
Dobbiamo iniziare pensare a fonti economiche aggiuntive a quelle pubbliche. Ma queste devono diventare un elemento generale del sistema, altrimenti si crea solo un sistema duale in cui i ricchi possono permettersi una cosa e i poveri no. Deve esserci invece ad un’integrazione reale che consenta di ottenere risorse aggiuntive per gestire un welfare collettivo.

Una soluzione potrebbe essere quella di smettere di dare tutto a tutti?
Non è vero che diamo tutto a tutti. La disponibilità di servizi a parità di bisogno è già fortemente diversificata sul territorio. Esistono già forme di razionamento occulto enormi, penso alle liste d’attesa, ai deficit d’offerta del meridione rispetto al Nord, ai prontuari farmaceutici diversificati da Regione a Regione.

Potremo modulare l’offerta in base al reddito?
Prima di pensare a queste soluzioni creiamo un sistema realmente trasparente che ci consenta di capire chi ha veramente bisogno. Inoltre prima di eliminare l’impostazione universalistica del sistema sanitario ci penserei due volte. Sarebbe improduttivo.
 
Ester Maragò

03 dicembre 2011
© Riproduzione riservata


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