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Come si fa a guadagnare di più in sanità? Non certo con i contratti

di Ivan Cavicchi

Normalmente si pensa che, in sanità, per guadagnare di più bisogna rinnovare i contratti e quindi adeguare ogni tanto le retribuzioni, il che ovviamente è vero. Ma se gli adeguamenti contrattuali sono sempre marginali, alla fine, essi, a ordinamenti invarianti, non sono in grado di variare significativamente la quantità finale della retribuzione. E il problema non sta tanto nel fatto che il Governo metta sul piatto poche risorse ma nell'attuale inquadramente giuridico dei professionsiti della sanità

05 GIU - Nel mio precedente articolo sulla riforma del lavoro ho proposto una tesi che vorrei approfondire: l’ordinamento che definisce una retribuzione è funzione della retribuzione,
 
Effe di x
Effe di x è l’espressione con i quali i matematici indicano il concetto di funzione. Cosa vuol dire? Molto semplicemente che:
• la retribuzione di chiunque lavori in sanità, prima di ogni cosa, cioè prima degli eventuali aumenti contrattuali, dipende soprattutto da come essa è progettata dall’ordinamento giuridico di riferimento,
• la norma (ordinamento giuridico) nei confronti della retribuzione (contratto di lavoro) ne definisce le caratteristiche quindi persino la sua quantità finale.
 
Se questo è vero, ricordandoci allo stesso tempo, del significato della funzione booleana, (a più valori di verità in ingresso si ha alla fine, cioè in uscita, un solo valore di verità), possiamo dire che: un ordinamento, partendo da un certo numero di valori definisce un certo valore retributivo che gli ordinari successivi rinnovi contrattuali non metteranno mai in discussione.
 
Quello che si rinnova è un modello di retribuzione che resta, a ordinamento invariante, nelle sue quantità finali, incontrovertibile. Il che vuol dire che, se veramente volessimo accrescere le quantità finali delle retribuzioni, perché a un certo punto ci accorgiamo con il passare del tempo che esse sono complessivamente insoddisfacenti, non è sul rinnovo contrattuale che bisognerebbe puntare ma sulla riforma dell’ordinamento che definisce la struttura della retribuzione.
 
Guadagnare di più
Normalmente si pensa, il contrario, e cioè che, in sanità, per guadagnare di più bisogna rinnovare i contratti e quindi adeguare ogni tanto le retribuzioni, il che ovviamente è vero.
 
Ma se gli adeguamenti contrattuali sono sempre marginali, alla fine, essi, a ordinamenti invarianti, non sono in grado di variare significativamente la quantità finale della retribuzione.
 
Nella legge di Bilancio 2020, per gli anni 2019-2021 per il nuovo contratto, rispetto al +3,48% del contratto precedente, si prevede una crescita del 3,50%, per cui le retribuzioni degli operatori sanitari rimarranno pressoché stabili con una crescita solo dello 0,2%.
 
Normalmente si pensa che il problema è il governo che mette pochi soldi per il rinnovo dei contratti, e questo anche è innegabile, anche se il vero problema risiede nell’ordinamento giuridico cioè nel modo con il quale si strutturano le retribuzioni
 
Senza scomodare Einstein va da sé che:
• rispetto alla retribuzione complessiva finale, il 3,50% di aumento su una retribuzione 1000, non è uguale al 3,50% su una retribuzione 500,
• ammesso che l’aumento sia comunque giudicato inadeguato la retribuzione di base 500 sarà “relativamente” più inadeguata della prima,
• tale inadeguatezza sarà ancora più significativa se consideriamo che negli ultimi anni i dipendenti della sanità hanno perso in media il 6,33% di potere di acquisto.
 
Mutual benefit
Quindi, proprio perché “effe di x”, per guadagnare davvero significativamente di più ogni tanto bisognerebbe ridiscutere l’ordinamento, più che puntare sulla generosità del governo. Soprattutto se l’ordinamento risulta in ragione dei cambiamenti sociali, desueto e anacronistico.
 
Siccome, a dispetto di quello che sostiene l’economia neoclassica, la retribuzione in sanità pubblica, non obbedisce alle leggi di mercato ma prevalentemente alle logiche compatibiliste della spesa pubblica, riformare l’ordinamento significa ripensare i diversi valori in gioco al fine di accrescere il grado di compatibilità/compossibilità delle retribuzioni, tanto nei confronti della spesa pubblica, quanto nei confronti della domanda effettiva di beni e servizi per la salute di una certa società in un certo periodo (Keynes concetto di “domanda aggregata”).
 
In sostanza, accrescendo le retribuzioni si dovrebbe fare in modo che, alla crescita inevitabile del costo del lavoro, corrisponda una certa crescita dei vantaggi tanto per il sistema che per i malati.
 
Ma questo è impossibile se i contratti non accettano di misurarsi con il principio solidale e pragmatico della reciprocità del vantaggio (mutual benefit).
In tutta sincerità, sia nelle piattaforme sindacali, che nei contratti sottoscritti, si fa fatica a rintracciare il principio del mutual benefit.
I contratti risultano fortemente auto-riferiti ai loro ordinamenti retributivi, quindi conchiusi dentro un prevalente interesse di natura sostanzialmente corporativa.
 
La retribuzione di sussistenza
40 anni fa la “cura” era pagata in un certo modo, perché il modo di curare era culturalmente dedotto dalla malattia, ma se la cura cambia culturalmente, perché è dedotta dalle nuove complessità anche culturali del malato, allora cambiando i valori culturali dovrebbero cambiare le modalità retributive. Se non cambia la retribuzione perché auto-riferita al solo interesse di chi lavora, anche la cura non cambia. Questo spiega la questione dell’invarianza.
 
Se si continua a pagare il lavoro al di fuori di qualsiasi principio di mutual benefit, statene certi che si continuerà a “curare” come si è sempre curato. Di esempi ce ne sono tanti ma non mi pare il caso ne di suscitare anticorpi ne di imbarazzare nessuno. Restiamo al ragionamento di fondo
 
E’ del tutto evidente che senza il principio del mutual benefit il divario già rilevante che c’è tra retribuzioni e società è destinato a crescere uno resta giuridicamente fermo e l’altro cambia in tutti i modi.
 
In tale divario, le retribuzioni è impossibile che crescano in modo significativo, al contrario, esse tenderanno ad assumere sempre di più le caratteristiche di quello che in economia si definisce il “salario di sussistenza” (da non confondere con il salario minimo).
Il “salario di sussistenza” è quello che definirei uno “standard di reddito” lo stesso che per un atleta si definirebbe un modello di rendimento standard.
 
Il mezzo pescatore
Io credo che:
• ormai tutte le retribuzioni in sanità siano diventate da anni “retribuzioni di sussistenza” di fatto, nel senso che esse si accontentano di mantenere gli standard di reddito conquistati con i contratti, che permettono loro di mettere su famiglia, pagare il mutuo o l’affitto e concedersi ogni tanto a parte le vacanze qualche cena al ristorante,
• non c’è sindacato che oggi non persegua di fatto un obiettivo di difesa di mantenimento e di adeguamento di questo standard di sussistenza,
• in nessuna piattaforma che ho studiato fino ad ora si è osato ridiscutere lo standard di sussistenza ,
• fatte salve le intenzioni di riforma che tutti dicono “a voce”, il sindacato, inteso in senso generale, allo stato attuale non ha nessuna ipotesi di riforma del lavoro non tanto da proporre al governo ma intanto da studiare per proprio conto.
 
Per cui, a lavoro invariante, è inevitabile che la frontiera dei sindacalisti, resti la difesa del reddito di sussistenza.
Alla fine la sensazione che si ha è che il sindacato, almeno in sanità, sia diventato nel tempo semplicemente l’amministratore di standard di reddito, quello standard concesso alla categoria che esso rappresenta più che colui che “per contratto” (scusate la battuta) dovrebbe adoperarsi in qualsiasi modo per far guadagnare il più possibile.
Ma se, con la poca rete che gli è concessa, il pescatore, si rassegna a pescare meno di quello che con più rete, potrebbe, allora egli è un mezzo pescatore.
 
Il valore che finanzia il valore
Essere un mezzo pescatore in un mare di pesci è un paradosso. Nell’articolo precedente, ho sostenuto che il valore del nostro lavoro è grande come il mare, e a renderlo sempre più grande e sempre più pieno di pesci è proprio la continua crescita della domanda aggregata di Keynes.
 
Il problema è che per soddisfare questa domanda ci serve una riforma del lavoro. Gli ordinamenti che ancora oggi definiscono le retribuzioni si giustificano con i valori semplici di una domanda aggregata di mezzo secolo e che oggi si sono diventati molto complessi. La maggior parte del valore potenziale del nostro lavoro ancora oggi è fuori dagli ordinamenti e quindi fuori dalla possibilità di essere trasformato in retribuzioni.
L’invarianza de-retribuisce il lavoro, rimedia aumenti marginali, e ristagna nel reddito di sussistenza.
 
Vorrei prevenire l’obiezione di chi potrebbe farmi notare che per andare oltre la retribuzione di sussistenza serve finanziare in modo significativo i contratti. Questo anche è vero ma solo se si resta nella logica della legge di bilancio. Non è più vero se si ragiona nella logica del mutual benefit .
 
Se si guadagna di più è solo perché si vale di più. È il valore che si produce in base al principio del mutual benefit, a finanziare una retribuzione maggiore.
 
Se continuiamo a pagare competenze, monte ore, quote capitarie, salari tabellari, indennità, ecc. è ovvio che più in là dello standard non si può andare.
Dobbiamo avere ben altre reti per pescare tanti pesci. Per questo serve una riforma del lavoro.
 
Inquadramento
All’inizio (Dpr 761/79) ad ogni dipendente della sanità al momento dell’assunzione, veniva attribuito un determinato ruolo. Questa operazione in tutto il mondo del lavoro si chiama “inquadramento contrattuale”. Il suo scopo era, 40 anni fa, definire la tipologia delle mansioni svolte, poi delle competenze e oggi degli incarichi e, di conseguenza, dedurne la retribuzione.
 
Si tratta, preliminarmente, di individuare il profilo professionale corrispondente alle mansioni, alle competenze, agli incarichi svolti e, successivamente, inquadrare il profilo nella corrispondente area prestazionale.
 
Secondo questa logica, la retribuzione è il risultato lineare di mansioni, competenze, incarichi.
 
Ancora oggi dopo 40 anni di riordini di ogni tipo, la retribuzione deriva dall’interpolazione di tre variabili:
1. la categoria di riferimento (medico, infermiere, tecnico di radiologia, ostetrica ecc)
2. la qualifica rivestita rispetto alla categoria (primario aiuto assistente, coordinatrice, responsabile ecc)
3. le mansioni le competenze gli incarichi che corrispondono alla qualifica
 
Questa è la rete con la quale il mezzo pescatore va a pescare.
 
La struttura della retribuzione
Vediamo i pesci che questa vecchia reta burocratica rattoppata tante volte riesce a pescare.
 
Non è il caso di scendere nei particolari (il titolo V del contratto della dirigenza prevede ben 23 pagine dedicate in modo molto analitico a tale questione) mi limito solo a sintetizzare l’art 83 che descrive la struttura della retribuzione dei dirigenti in 13 varianti sintetizzabili in 4 raggruppamenti:
• trattamento fondamentale, stipendio tabellare per la qualifica dirigenziale comprensivo dell’indennità integrativa speciale,
• retribuzione individuale di anzianità, di posizione d’incarico parte fissa e variabile, di risultato, retribuzione legata alle particolari condizioni di lavoro (straordinario compreso),
• indennità di specificità medico-veterinaria; esclusività per i dirigenti con rapporto di lavoro esclusivo, di incarico di direzione di struttura complessa,
• riconoscimenti vari ad personam: assegni personali, trattamento accessorio, specifico trattamento economico ove in godimento quale assegno, assegno per il nucleo familiare, ove spettante. 
 
Analoga struttura con qualche differenza vale per il contratto di comparto (art 75) che sostanzialmente è riducibile a due gruppi.
• salario tabellare,
• indennità di ogni tipo.
 
Quindi tanti pesciolini come se la retribuzione fosse un piatto di latterini.
 
Opera o operatore?
E’ evidente ad occhio nudo che l’analisi, pur sommaria della struttura della retribuzione tanto della dirigenza che del comparto, ci dice che a parte i pesci di grossa taglia che non ci sono, abbiamo a che fare con l’esatto opposto di quello che oggi per tante ragioni, sarebbe meglio che fosse:
• oggi mentre sarebbe auspicabile per il bene di tutti (sistema, malati, operatori) che la retribuzione in sanità fosse strutturata in base ai valori dell’opera, quindi ai suoi risultati pragmatici,
• di fatto la retribuzione resta strutturata da mezzo secolo in base alla descrizione giuridica dell’operatore cioè è paradossalmente una funzione invariante nei confronti del lavoro,
• hai voglia a citare l’ontologia tomista, la realtà non è operator sequitor opus, ma l’esatto contrario.
 
Retribuire o risarcire e rimborsare?
La retribuzione in sanità obbedisce ancora dopo mezzo secolo al principio semplice dell'ascription non sa neanche cosa sia l’altro principio, quello che ormai da anni si sta affermando nel mondo del lavoro che è quello dell'achievement.
 
In sanità la retribuzione non è “guadagnata” in senso meritocratico e pragmatico ma è “acquisita” in senso giuridico cioè è dovuta perché c’è una categoria una qualifica una mansione.
 
Vorrei invitarvi a riflettere sul fatto che le due principali componenti della retribuzione in sanità, alla fine sono:
• il trattamento tabellare
• le indennità
 
Ma il loro senso logico di fondo è del tutto identico: entrambi spettano a un medico perché è semplicemente un medico, non conta se il medico è un padre eterno o una supercazzola, tanto il primo che il secondo sono giuridicamente uguali.
 
Quando penso alle tante indennità (i pesciolini) che sono previste nei contratti mi viene in mente Keynes quando nella sua “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” parla di “penosità” e di “pena” di lavorare.
 
Convenienza e giustizia
Pongo semplicemente due domande che riguardano la convenienza e la giustizia:
• è più conveniente per tutti, retribuire i lavoratori per quello che sono o per quello che fanno?
• è più giusto retribuire chi lavora come se i lavoratori fossero tutti giuridicamente uguali o è più giusto retribuirli in base ai loro meriti, alla loro opera, e quindi ai valori che producono quindi apprezzando le differenze che esistono nelle prassi?
 
Vorrei far notare subito che la questione della “convenienza” e quella della “giustizia” oggi più che mai sono strettamente interdipendenti.
 
Oggi troverei davvero difficile definire:
• una giustizia retributiva a dispetto della convenienza sociale,
• una convenienza retributiva a dispetto di una giustizia sociale.
 
Rispunta questo rompiscatole del mutual benefit.
 
Conclusione
La riforma del lavoro non serve solo a guadagnare di più e a lavorare meglio ma può aiutare il mezzo pescatore, a diventare un provetto pescatore quello che con le reti giuste potrebbe addirittura stupirci con una pesca miracolosa.
.
 
Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si spezzò”. (Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 21.1-19).

05 giugno 2020
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