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Anche i medici Usa sono sempre più stressati. Soprattutto quelli di terapia intensiva. Tra le cause più frequenti il peso burocratico

di Domenico Della Porta

E le donne hanno riportato un più elevato tasso di burnout rispetto agli uomini: 48% versus 38%. Il tasso sale inoltre anche in relazione all’età: dal 35% per il gruppo 28-34 anni al 44% per il gruppo 35-44 anni sino al 50% per i medici con 45-54 anni. Per poi declinare al 41% quando si considera il gruppo 55-69 anni. I medici che hanno palesato uno stato depressivo lamentano, per il 42%, pessimi rapporti con i colleghi. Questi alcuni risultati del rapporto Medscape

02 MAR - In sanità lavorare stanca non fisicamente ma soprattutto psicologicamente. Dai risultati dell’ultimo Rapporto sugli stili di vita Medscape che ha coinvolto circa 16.000 medici statunitensi sono venuti fuori valori peggiorati rispetto allo stesso studio precedente condotto poco più di due anni fa sullo stress cui vanno incontro i camici bianchi. Infatti lo stress lavorativo, descritto quasi da un medico su due, si presenta in una dimensione trasversale che coinvolge tutte le professioni e tutti i livelli professionali.
 
Un individuo stressato commette più errori, si ammala di più, rende di meno, si relaziona agli altri con difficoltà, non regge i ritmi dell'azienda, favorisce l'insorgenza di conflitti in ambito lavorativo, si vede notevolmente ridotta la propria qualità di vita, perde ogni motivazione progettuale rispetto a se stesso, all'ambiente di lavoro, alla società. E’ questo un netto segnale che obbliga il datore di lavoro del comparto sanitario ad una immediata e attenta valutazione del rischio psicologico e da costrittività organizzativa in ambito lavorativo previsto dalla vigente normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro (D.Lgs 81/2008).
 
A differenza di quanto è emerso in Gran Bretagna (QS del 28.2.2019), dove al primo posto tra i medici stressati vengono indicati i medici di famiglia, da questi studi viene fuori che sono soprattutto i medici di terapia intensiva a essere esposti al rischio di burnout, seguiti dagli urologi e dai medici che operano nei servizi di emergenza-urgenza. Lo stress da lavoro si fa sentire anche per i medici di medicina generale solo al quarto posto della classifica, e per quelli che lavorano nei reparti di medicina interna, poi seguono pediatri e chirurghi. In fondo alla lista ci sono invece gli oculisti e, dato forse sorprendente, gli psichiatri.
 
La sindrome da burn-out (passata dal 45 al 54 per cento ) rende il lavoro triste, le giornate pesanti, i rapporti tesi e la relazione con l’utenza quasi impossibile. L’attenzione alla situazione psicologica di chi svolge helping professions (professioni d’aiuto: medici, infermieri, insegnanti), rappresenta uno dei nuovi campi di ricerca psicologica, dice Ferdinando Pellegino, psichiatra autore di numerosi testi in materia. Parlare di stress, riferendosi oggi al mondo del lavoro, sembra cosa ormai scontata anche prescindendo dallo specifico delle singole professioni; parlare di mobbing e di burn-out, rimanda, al contrario, a scenari più complessi e articolati, aggiunge lo studioso.
 
Oltre le amare riflessioni sul gran numero di non occupati, che conoscono altre forme di disperazione, appare evidente ipotizzare che, al generico stress proprio di ogni professione, si debbano poi accoppiare condizioni specifiche, in relazione alle diverse organizzazioni lavorative e ai diversi contesti in cui si opera. L’operatore “in forma” rende di più, sottolinea Pellegrino, e i vantaggi sono sia per l’operatore sia per l’azienda. Partendo da questa riflessione si può affermare che le aziende che non investono sulla positività del clima organizzativo sono miopi.
 
L’operatore in crisi o stressato rende di meno, è più esposto a infortuni lavorativi o a errori professionali ed ha una peggiore qualità della vita. Nel rapporto 2018, come per i precedenti, sono le donne ad avere riportato un più elevato tasso di burnout rispetto agli uomini: 48% versus 38%. Il tasso di burnout sale inoltre anche in relazione all’età: dal 35% per il gruppo 28-34 anni al 44% per il gruppo 35-44 anni sino al 50% per i medici con 45-54 anni. Per poi declinare al 41% quando si considera il gruppo 55-69 anni. La pressione lavorativa (intesa come obiettivi aziendali da raggiungere o gestione dell’attività autonoma) pare essere elemento determinante sia i medici dipendenti sia per i liberi professionisti: entrambi i gruppi lo riportano con un tasso pari al 42%.
 
I compiti burocratici ormai insiti nella professione medica sono considerati dal 56% dei medici una delle cause di maggiore stress. Seguono poi, tra gli altri, i problemi legati alle troppe ore di lavoro (39%) e agli spesso complicati processi legati alla continua informatizzazione (24%), oltre alle preoccupazioni per i bassi livelli retributivi (24%). Circa un terzo dice di essere “esasperato” dal rapporto coi pazienti (33%) o decisamente meno impegnati con essi (32%) proprio a causa di stress e depressione. Il 14% ha poi ammesso che la loro depressione conduce a errori che normalmente non avrebbero commesso, ma solo il 5% ammette che tali errore potrebbero danneggiare i pazienti.
 
Ancora: i medici che hanno palesato il loro stato depressivo hanno anche segnalato rapporti non idilliaci con colleghi e collaboratori. Il 42% ha infatti pessimi rapporti (mancato ascolto, collaborazione, partecipazione), il 37% frustrazione, il 36% minor empatia. Alla domanda su cosa potrebbe ridurre il burnout, oltre un terzo (35%) dei medici ha indicato che più elevati livelli retributivi potrebbero essere un incentivo adeguato. Per il 31%, avere meno burocrazia. Altri fattori potrebbero essere: maggiore flessibilità lavorativa (20%), maggiore supporto dai collaborati (19%), maggiore rispetti dai pazienti (12%).

 
Alla domanda su come essi gestiscono il proprio livello di esaurimento e depressione, il 50% dei partecipanti ha indicato l’esercizio fisico e il 46% di parlarne con la famiglia o amici. Il 42% trova sollievo nel sonno, il 36% nello stare da soli o nell’ascoltare musica, il 33% nel mangiare “junk food”. Il 3% fuma sigarette, il 2% fa uso di farmaci e l’1% fuma addirittura marijuana. Per finire sono gli oftalmologi (37%), gli ortopedici (35%), i chirurgi plastici (35%) e i patologi (34%) a dichiararsi di essere felici quando si trovano al lavoro. I più infelici sono stati i medici di terapia intensiva e quelli di famiglia (entrambi 22%), i cardiologi (21%) e gli internisti (21%).

Domenico Della Porta
Docente di Medicina del Lavoro Università Telematica Internazionale Uninettuno - Roma


02 marzo 2019
© Riproduzione riservata

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