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I Dipartimenti di salute mentale diventeranno semplici “strutture”?

di Diana Di Pietro e Carola Celozzi

07 NOV -

Gentile Direttore,
i temi che ci troviamo ad affrontare ogni giorno sono davvero sempre più complessi e articolati. Molti ne hanno ricordato le cause, quasi tutte riconducibili ai mutati fattori culturali e ambientali, agli stili di vita e ai diversi e più difficili contesti familiari e sociali. Il Covid ha ben contribuito a sottolinearne l’evidenza, soprattutto nei giovani.

Più discussioni stanno positivamente accendendo lo spirito adattivo che dovrebbe caratterizzarci: temi come il cambiamento epocale della 180, il PNRR, una possibile Funzione aziendale di Psicologia, il rinnovamento dei Dipartimenti di Salute Mentale che nella maggior parte dei casi includono oggi anche i TSMREE (tutela salute mentale e riabilitazione in età evolutiva) e le Dipendenze Patologiche. Occuparsi di problemi di salute mentale e della tutela della salute mentale ha richiesto e richiede un continuo aggiustamento, fra saperi ed evidenze, fra processi e linee guida, tutela e consenso, che solo un approccio multidisciplinare integrato e flessibile ha potuto sostenere.

Sono tante le esperienze dei Dipartimenti che hanno saputo aprirsi all’integrazione con altri servizi vicini per mission e modelli. Sono nati così progetti trasversali aperti al territorio, percorsi ospedale territorio, con operatori impegnati su varie linee di attività e su temi che solo pochi anni fa non erano immaginabili. La flessibilità e la capacità di muoversi su problemi complessi permette una trasformazione continua. Oggi siamo chiamati a rispondere a problemi diversi rispetto al passato, che sollecitano diverse e più specifiche competenze Evidence Based, allargate al contesto di vita, mirate al benessere alla qualità di vita della persona, anche quando autore di reato, e della sua famiglia.

Per questo abbiamo ritenuto importante, in qualità di Direttori di DSM, partecipare con alcune considerazioni al dibattito sempre più fitto e ricorrente sui temi più caldi.

L’organizzazione dipartimentale è stata introdotta negli anni ’90 come strumento di riduzione della variabilità nelle procedure e nei risultati. Costituisce l’ambito in cui realizzare le attività di Governo clinico nelle sue principali estensioni, quali la misurazione degli esiti, la gestione, la promozione della sicurezza del paziente, l’adozione di linee-guida e protocolli diagnostico-terapeutici, la formazione continua, il coinvolgimento del paziente e l’informazione corretta e trasparente.

È noto come un dipartimento venga considerato “forte” quando è gerarchicamente organizzato e ha la possibilità di gestire autonomamente i fattori produttivi di cui dispone, mentre viene considerato “debole” quando dispone di un’organizzazione che si limita a coordinare trasversalmente strutture funzionali autonome sul piano organizzativo e gestionale.

Tutto ciò appare maggiormente rilevante quando l’approccio riguarda la salute mentale, ambito in cui i determinanti si intrecciano in modo inestricabile secondo il modello biopsicosociale.

A tal fine veniva istituito il Dipartimento di Salute Mentale (Ddpr 7/4/1994). Da allora, pur nelle differenze tra le varie realtà regionali e locali , l’organizzazione dipartimentale del DSM continua a rappresentare un efficace modello di governo clinico, nonostante le difficoltà in costante aumento, soprattutto per la carenza di risorse e l'incremento di condizioni psichiche ad alta complessità gestionale.

La multidisciplinarietà, la differenziazione degli interventi, la forte coesione interna possibile nell'impalcatura organizzativa, l'integrazione ospedale-territorio, l'apertura costante a stimoli sempre nuovi derivanti dagli sviluppi delle neuroscienze e dall'affermarsi di tecniche psicoterapeutiche e riabilitative avanzate e riconosciute, la collaborazione con altre istituzioni, con il terzo settore e con le associazioni dei familiari (la medicina partecipativa l’abbiamo frequentata anticipando i tempi), hanno spostato culturalmente ed operativamente in avanti l'approccio italiano al tema salute mentale rispetto a molte altre realtà estere ed anche rispetto ad altre aree della sanità pubblica. Ciò ha permesso ai nostri servizi di reggere e anzi di evolversi nella risposta all'impatto pandemico e alle trasformazioni sociali e normative relative, ad esempio, ai pazienti autori di reato.

Il PNRR non a caso propone questo modello anche nella nuova organizzazione delle Case di Comunità, superando la vecchia distinzione categoriale dei professionisti e di ciò che ognuno fa e prospettando una visione più moderna basata sul benessere delle persone che si rivolgono al servizio pubblico, a partire dai bisogni che vanno letti in riferimento al modello bio-psico-sociale.

Non tutto, naturalmente, è stato realizzato secondo le aspettative, non sempre forniamo le risposte complete che vorremmo garantire, non tutti i servizi sono all’altezza del modello che, tuttavia, mantiene la sua forza potenzialmente propulsiva anche per traghettarci “oltre la 180”.

Non si tratta, infatti, di narrazione apologetica, dal cui rischio ci mette giustamente in guardia Ivan Cavicchi: il tema è un altro. E’ che non condividiamo l’italica attitudine ad ipotizzare nuove costruzioni distruggendo quanto di buono è stato prodotto in precedenza, soprattutto quando la tradizione è ammirevole, la preparazione degli operatori è in continua crescita formativa, le loro fatiche e la loro determinazione nel superare fallimenti e difficoltà risultano sempre più tangibili. Tradotto: quando emerge la necessità di un cambiamento, la riflessione deve essere accurata: non significa che qualsiasi cambiamento vada bene in quanto tale.

La proposta relativa alla Funzione Aziendale di Psicologia, sistema organizzativo caldeggiato dal Presidente dell’Ordine degli Psicologi, dott. David Lazzari, genera perplessità rispetto al senso attuativo, soprattutto analizzando l’articolazione di ruoli e mandati previsti da questa unica funzione aziendale, di fatto assimilabile ad una struttura con compiti di carattere organizzativo e gestionale, di programmazione e governo clinico. Che preveda UOC o Dipartimento, sicuramente l’idea fondante ha grandi e ambiziosi propositi se si intende gestire gli psicologi in tutti i servizi e in tutti i setting assistenziali. Le azioni descritte appartengono però alle diverse articolazioni dell’attuale organizzazione dei SSR, dove al contrario appare chiara una declinazione secondo criteri di mission di equipe dedicate e non secondo ruoli professionali.

Nel suo articolo del 24 ottobre su QS, David Lazzari elenca una serie di queste azioni , secondo il suo parere attinenti al ruolo dello psicologo, che di fatto corrispondono a compiti istituzionali di servizi specifici. Quando descrive le problematiche della coppia, i problemi di fertilità, il percorso nascita, l’affido, l’adozione, la genitorialità, i primi mille giorni, descrive i Lea attribuiti ai Consultori Familiari.

Lascia, infatti, alquanto perplessi, nel documento che descrive la proposta della Funzione Aziendale di Psicologia, l’esercizio di declinazione dei LEA per le competenze degli psicologi, a partire dal DPCM 12 gennaio 2017, in quanto tali funzioni rappresentano gli ambiti di competenza di specifici servizi multidisciplinari, a cui altri operatori della salute, medici, infermieri, terapisti della riabilitazione e assistenti sociali concorrono per quanto di competenza, in ambiti definiti (minori, adulti e famiglia), e in diversi contesti organizzativi, come i Consultori Familiari, i servizi di Tutela Salute Mentale e Riabilitazione in Età Evolutiva, i servizi per la Salute Mentale e le Dipendenze Patologiche, i servizi che si occupano delle Disabilità.

Nell’elencare, poi, altre azioni attinenti ad altri percorsi ospedalieri o integrati ospedale-territorio su patologie gravi o croniche, che oggi giustamente prevedono anche interventi psicologici, tutto viene presentato mantenendo di fatto una netta e difficile distinzione di ruoli e funzioni, come a mantenere l’antica divisione bio-psiche. Sorprende che dopo decenni venga riesumato il “modello medico”, quando ormai da più di vent’anni l’approccio bio-psico-sociale dovrebbe essere riconosciuto da tutti come modello di riferimento.

Essere ancora oggi ancorati a schemi superati e modelli del passato, riproponendo una divisione di saperi, soprattutto sul territorio, non facilita l’integrazione e la crescita personale e professionale, delineando, piuttosto, una separazione tra categorie che sembra tratteggiare nuovamente una separazione mente-corpo di cartesiana memoria, prospettiva di cui i pazienti non hanno particolare necessità e che stiamo combattendo, come operatori pensanti, da tempo ormai immemorabile.

Forse in qualche Regione più sfortunata ancora persistono nostalgie vintage, ma questo non può giustificare una proposta di cambio di marcia in senso opposto al trend instaurato da anni. Incrementare la presenza degli psicologi in ogni setting è uno dei percorsi auspicabili, non fluidificarne il ruolo .

Una funzione aziendale di psicologia rischierebbe di sgretolare il modello organizzativo attuale e di interferire negativamente sull’integrazione multidisciplinare. Oggi gli psicologi sono professionisti della salute, sono dirigenti sanitari a tutti gli effetti, occupano ruoli organizzativi in tutti i settori della salute, alcuni sono direttori di Dipartimento, altri di UOC con pari dignità di altri dirigenti sanitari.

È vero che la legge 126/2020 demanda ad un “protocollo uniforme sull'intero territorio nazionale che definisca le buone pratiche di salute mentale di comunità e per la tutela delle fragilità psico-sociali”. La legge 176/2020 stabilisce che “le aziende sanitarie e gli altri enti del Servizio sanitario nazionale possono organizzare l'attività degli psicologi in un'unica funzione aziendale". Possono, appunto. Ma va valutato con tutti gli interlocutori interessati perché i rischi sono tanti, mentre le possibilità di produrre buone prassi integrate sono sicuramente più consistenti.

Del resto, l’identità delle persone, così come quella dei gruppi, è sostenuta dalla capacità di conservare una coerenza interna nel cambiamento imposto dagli stimoli esterni e interni che richiedono adattamento.

Sicuramente è necessario prepararsi ad affrontare i mutamenti e le molteplici sfide che ci attendono, riassunte sapientemente nell’articolo di Giuseppe Ducci.

Purtroppo la cultura del lavoro multidisciplinare rischia una regressione proprio nei servizi dedicati alla tutela della salute mentale nelle sue varie articolazioni. Concordando sull’accresciuta domanda e sulla capacità della popolazione oggi di esprimere un bisogno psicologico nonché sulla “carenza di riferimento” non si condivide però la soluzione proposta. Bisognerebbe prima chiedersi come mai alcuni servizi territoriali hanno maggiormente risentito delle criticità relative alle risorse di personale a tutti i livelli e per tutte le discipline. Il punto centrale è che le funzioni “carenti” del territorio dovrebbero essere invece maggiormente disponibili nei servizi dedicati, dove lo psicologo insieme ad altri professionisti, dovrebbe essere adeguatamente e appropriatamente presente nell’assolvimento dei LEA.

Bene ha fatto Fabrizio Starace a ricordare la necessità di definizione di standard organizzativi, quantitativi e qualitativi per la salute mentale. Ricordando, inoltre, come né il PNRR, né il DM 77/2022 abbiano dedicato attenzione ai servizi di salute mentale ed abbiano semplicemente rimandato ad un atto successivo l’integrazione del DM 77. Ci auguriamo si terrà conto, come auspicato dal collega, dell’aumento della domanda registrato negli ultimi 20 anni, cui dovrebbe corrispondere un incremento del rapporto operatori/popolazione residente.

Spacchettare secondo ruoli riporta, in conclusione, ad una logica che contrasta con l’attuale organizzazione dei SSR e con il modello maturato e auspicato dell’interdisciplinarietà, come risposta attuale più appropriata ai bisogni della popolazione. Tornare indietro da questo modello, concordiamo con Angelo Fioritti e Giuseppe Nicolò, appare effettivamente, e seppure come paradosso esplicativo, una follia. Continuare a concentrarsi solo su “cosa fare” non basta, è tempo di lavorare insieme sul “come”. Il tutto mirando ad obiettivi costruiti insieme, partendo dai differenti saperi e dalle diverse identità professionali, in una visione significativa del progetto di sistema come premessa per articolare i progetti per le persone.

Certo ricorrere alla Pandemia da Covid 19 per sottolineare il ruolo della psicologia può portare i suoi frutti, ma ricordiamoci che il sistema, almeno nel Lazio, è stato flessibile ed ha retto l’impatto. Al risultato hanno concorso tutti i professionisti della salute, ognuno nel proprio ambito e nelle proprie competenze, rispondendo ai bisogni bio-psico-sociali e offrendo supporto alle famiglie, ai pazienti Covid e long Covid, alla popolazione fragile. I DSM si sono impegnati a supportare lo stress degli operatori, riorganizzando azioni, professionisti, e strumenti, come la telemedicina ormai ampiamente utilizzata.

Il complesso organizzativo del DSM rappresenta, di fatto, un punto di riferimento concreto e ben articolato in ogni realtà territoriale. Quello che viene richiesto ai servizi riguarda l’offerta di competenze ben definite e la capacità di intercettare i bisogni, di rendere più accessibili i luoghi di cura.

È stato faticoso costruire i Dipartimenti, è oneroso adeguarli costantemente ai nuovi bisogni e alle nuove evidenze scientifiche ed è uno sforzo intenso, quotidiano, sensato in quanto e finché comune, spostare continuamente in alto l’asticella per accogliere sfide sociosanitarie sempre più ardue.

La forza trainante delle azioni e degli interventi dipartimentali in favore della salute mentale risiede proprio nella multidisciplinarietà e negli alti livelli di integrazione tra professionalità diverse e tra servizi diversi (ospedalieri e territoriali), di un sistema che non può trarre fondamento dal sommarsi e/o affiancarsi delle varie discipline, così come non può identificarsi in un insieme di servizi, ma trova un significato compiuto solo nella condivisione ancorata ad un unico impianto strutturale capace di condurre ad un pensiero e a un’idea globale e coerente di iniziative in favore della salute psichica. Ecco perché paragonare lo schema operativo fondato su un’alta integrazione delle figure psicologiche nelle équipe di riferimento alle composizioni di équipe di altre branche della medicina, non è sostenibile.

Una reale integrazione, tanto invocata in tutti i contesti culturali e politici nazionali e internazionali, non può avvenire attraverso una parcellizzazione delle prospettive e degli interventi specialistici solo tecnicamente orientati; di certo non può bastare un comune convincimento della necessità di preparazione tecnica unita ad un atteggiamento empatico e assertivo, neanche può essere immaginabile un approccio di imprenditoriale collaborazione tra professionisti, soprattutto se dirigenti, che afferiscono a organizzazioni sanitarie diverse, con obiettivi non sempre sovrapponibili, anche perché riconducibili a matrici di responsabilità spesso non coincidenti nell’attuazione operativa.

Facile sarebbe semplificare la questione affermando che l’obiettivo principale è comune: la cura della persona. Conosciamo tutti molto bene gli obiettivi “a cascata” che caratterizzano le linee operative di piramidi organizzative differenziate: obiettivi che, ribadiamo, possono distanziarsi moltissimo nel seguire i percorsi e i rivoli delle scelte aziendali.

A questo punto, la domanda sul destino effettivo dei DSM è legittima: decadenza del dipartimento a struttura? Smembramento delle funzioni declinate in sistemi inevitabilmente sempre più distanti?

In effetti, parrebbe una follia. Piccola, come un piccolo bacillo che causa un grande morbo, suggerirebbe Proust. Ma lui parlava dell’innamoramento infelice.

Diana Di Pietro

Neuropsichiatria Infantile
Direttore DSMDP Asl Roma 6

Carola Celozzi
Psichiatra
Direttore DSM ASL Roma 4



07 novembre 2022
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