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Si riparta dai Dipartimenti di salute mentale

di Federico Durbano 

07 GIU -

Gentile Direttore,
prendo spunto da quanto espresso dal collega Angelozzi nel suo intervento di ieri "Serve una visione complessiva più ampia della organizzazione del benessere psichico", per riprendere e sottolineare alcuni punti importanti per chi, come me, vive la quotidianità del confronto tra un modello ormai "vecchio" di psichiatria e delle richieste ormai ineludibili di una "nuova" società. Temi che ho già toccato in mie precedenti lettere e commenti.

Al di là della posizione ormai di retroguardia finalizzata alla difesa a oltranza della "180" (che nessuno di noi, ribadisco ancora una volta, vuole abolire), certamente il modello organizzativo che da questa era stato sviluppato alla fine degli anni '70 del secolo scorso poteva essere adeguato a quella realtà sociale e sanitaria: chiusura dei vituperati manicomi (ma vorrei aprire uno spunto di riflessione sui nuovi manicomi territoriali delle varie SRP sulle quali circolano ad vitam i nostri pazienti più complessi), abbandono del sistema mutualistico della sanità per un sistema universalistico ancora tutto da costruire, scarsa mobilità della popolazione (a parte la emigrazione sud-nord legata alla ripresa economica).

La società civile da allora di strada ne ha fatta, ed uno dei capisaldi della organizzazione psichiatrica - il territorio - sembra diventato il Fort Alamo del codice di avviamento postale: se risiedi a quell'indirizzo, a prescindere dai tuoi bisogni e dalla tua situazione complessiva sociale e relazionale, ti devi riferire al centro di salute mentale legato a quell'indirizzo. Ma questo modello che legge la territorialità come legame geografico e non come opportunità di risorse ci sta affondando, ma non riusciamo ad emergere: la scarsità di risorse ci spinge sempre più in una posizione difensiva del perimetro delle nostre piccole fortezze.

Peccato però che quando ci troviamo a dover affrontare il sempre più diffuso paziente senza fissa dimora, migrante, magari autore di reato (motivo primario per cui viene attenzionato ai servizi), nessuno sappia a chi deve afferire: se aveva una residenza, il Comune dopo un certo periodo lo cancella dalle liste dei cittadini, e da quel momento non ha più un "territorio" (a dispetto di circolari esplicative del Ministero degli Interni che dichiarano essere, il suo territorio, quello dell'ultima residenza certificata anche se non più attiva), e se commette un reato analoghe circolari esplicative del Ministero di Giustizia ritengono che il "territorio" competente sia quello dove è stato commesso il reato.

Quindi sempre una connotazione geografica e non funzionale; la "rete" delle risorse territoriali che dovrebbe favorire il reinserimento funzionale del soggetto nel consesso civile dov'è e qual è? Questa ad esempio sarebbe una grande battaglia da combattere, complementare alla riforma del codice penale. Altrimenti i servizi non hanno una rotta condivisa, creando i presupposti per una cronicizzazione (o peggio un abbandono) e aumentando i rischi per una commissione di comportamenti antigiuridici innescando un pericoloso circolo vizioso.

I servizi quindi devono riorganizzarsi. Deve essere affrontata seriamente una nuova vision della salute mentale, in cui i problemi (drammatici ma collaterali e statisticamente poco rilevanti) del TSO, della contenzione fisica (allegramente praticata senza critiche in ogni contesto sanitario ma vituperata e maledetta solo in psichiatria), della posizione di garanzia degli psichiatri (e perché non delle altre figure professionali delle equipe dei CSM?), degli autori di reato diventano una fantastica cortina fumogena per nascondere i veri bisogni dei servizi di salute mentale.

Per fare ciò serve che si discuta serenamente di nuovi modelli organizzativi, di nuovi assetti dei servizi rispetto ai percorsi erogativi, di nuovi parametri di accreditamento dei servizi in base ai reali percorsi di cura erogabili, di accettare che il modello della territorialità (dopo 45 anni di sperimentazione) possa essere messo in discussione a fronte di palesi criticità derivanti dalle interazioni tra i diversi attori, formali ed informali, che rispondono a logiche (normative ed organizzative) a volte anche in contraddizione.

Sono quindi assolutamente d'accordo con Angelozzi quando parla di frammentazione dell'offerta nata dai vari progetti "spot", e l'ho anche detto in diversi miei interventi: ma questo significa che la salute mentale non deve diventare un mercato delle posizioni di potere narcisistiche dei diversi attori che rubino un pezzetto di terreno agli altri, ma deve trasformarsi in un sistema coordinato gestionale il cui modello è già scritto e si chiama "Dipartimento di Salute Mentale". Solo riunendo tutti gli attori in un modello gestionale unico si può coordinare la risposta integrata e secondo una logica di stepped-care ai bisogni reali della popolazione. Allora sì che il termine "disagio" diventa significante sul piano clinico, ovvero elemento di allarme e premonitore di una possibile evoluzione patologica.

Ma altrettanto chiaro è che chi se ne occupa deve necessariamente essere nella filiera del processo di gestione della salute mentale, ovvero il Dipartimento di Salute Mentale. Una volta stabilito ciò, devono essere rivisiti i diversi parametri operativi (le "regole di ingaggio") per perimetrare le diverse responsabilità di tutti gli attori della filiera che deve essere coordinata da una regia forte evitando doppioni e dispersioni di risorse. Quindi devono essere proposti modelli organizzativi che rispondano a criteri di scientificità e EBM in una logica di stepped-care. Solo allora si può serenamente affrontare il tema della posizione di garanzia e quindi anche dei riflessi giuridici e forensi dei nostri utenti (e dei nostri operatori).

Auspico che le diverse società scientifiche possano collaborare in tale senso, che il tavolo tecnico appena ricostituito al Ministero possa avere una funzione programmatoria forte e libera da impedimenti ideologici e da atteggiamenti di esclusione, che i diversi stake holder del sistema (tra i quali gli operativi sul campo rappresentati dai Direttori di Dipartimento, non tutti e non sempre psichiatri) possano avere una rappresentanza almeno per le linee di indirizzo organizzativo, che il Parlamento non si arrocchi in lotte di bottega (la Sanità può avere connotazioni politiche, la Salute non ha politica) proponendo riforme legislative utili e coerenti con i nostri bisogni, e che i diversi Ministeri (Salute, Giustizia, Interni, Affari Sociali, Economia e Finanze) possano cogliere i diversi spunti fornendo un prodotto coordinato e unitario. Insomma, come si dice in Lombardia, sperem.


Dott. Federico Durbano
Direttore S.C. Psichiatria Martesana UOP 34
Direttore Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze
Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Melegnano e della Martesana



07 giugno 2023
© Riproduzione riservata

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