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Se lo psichiatra è “colpevole” per il suicidio di una sua paziente

di Pietro Pellegrini

09 OTT - Gentile direttore,
suscita molta perplessità la recente sentenza della Cassazione Penale n. 33609/2016 con la quale è stata applicata la posizione di garanzia al medico psichiatra in relazione al suicidio attuato dal paziente in cura. Nel caso specifico un medico psichiatra in servizio presso il reparto di neuropsichiatria della casa di cura è stato accusato di omicidio colposo in quanto avrebbe omesso di adottare misure di protezione idonee ad impedire che la paziente, ricoverata con diagnosi di disturbo bipolare in fase depressiva con ideazione negativa a sfondo suicidario, si allontanasse dalla stanza in cui era ricoverata, raggiungesse un’impalcatura allestita all’esterno della struttura ospedaliera, lanciandosi nel vuoto trovando così la morte.
 
Colpiscono le affermazioni contenute nella sopracitata sentenza: ”laddove l’imputato (lo psichiatra) avesse assicurato una stretta e continua sorveglianza, l’evento lesivo (suicidio) oggetto di giudizio non si sarebbe verificato con certezza, secondo una valutazione prognostica ex ante condotta in coerenza al principio dell’elevata probabilità logica e della credibilità razionale”.
 
“Secondo le linee guida più riconosciute (per altro non specificate), nel settore specifico psichiatrico, si rendeva assolutamente necessario procedere, oltre a tutti gli interventi di tipo farmacologico, a una stretta sorveglianza intesa come assistenza della paziente ventiquattr’ore su ventiquattro”.

“Proprio le condizioni della paziente evidenziatesi nell’imminenza del fatto, le notizie anamnestiche legate alle precedenti esperienze di tentativo di suicidio, unite alla diagnosi di accettazione, rendevano con evidenza largamente prevedibile, e altamente intenso sul piano obiettivo, il rischio di un rinnovato tentativo di suicidio della donna” (Corte Cassazione Penale n. 33609/2016)

In altre parole, secondo la Suprema corte se il medico psichiatra avesse disposto una stretta sorveglianza 24 ore su 24 il suicidio non si sarebbe verificato. Si tratta di un ragionamento lineare che a prima vista potrebbe anche sembrare convincente. 

Ma si tratta di affermazioni sostenibili scientificamente? Cosa dicono le Linee guida?
Facendo riferimento alla Raccomandazione n.4 del marzo 2008 del Ministero della Salute “Prevenzione del suicidio di paziente in ospedale” questa indica di fare una valutazione del rischio e di effettuare “l’accertamento delle condizioni cliniche, in particolare sindromi cerebrali organiche, patologia psichiatrica (depressione, disturbo bipolare, schizofrenia ed altri disturbi psicotici, disordini di personalità con comportamento aggressivo o narcisistico o falsa autosufficienza, personalità borderline o antisociale, disturbo della condotta e disturbo oppositivo in età evolutiva), abuso/dipendenza (da alcol, stupefacenti e/o psicofarmaci, da gioco), eventuali diagnosi multiple, ansia, attacchi di panico, insonnia, patologia terminale; esame obiettivo per cogliere i segni tipici dell’alcolismo cronico nonché di un’eventuale sindrome da astinenza e l’effettuazione, tra gli esami clinici, della alcolemia;”

Quindi tutti i pazienti con disturbi mentali (e non solo) sono a rischio di suicidio (che per altro viene attuato anche da persone non affette da disturbi mentali).

A fronte della gravità e imminenza del rischio suicidario le misure assistenziali raccomandate, oltre a quelle ambientali, sono quelle di “evitare di lasciare soli i pazienti a rischio ed eventualmente definire modalità per la vigilanza. Particolare attenzione deve essere prestata nelle ore serali e notturne, quando il rapporto numerico tra personale e pazienti è ridotto.”
Ben diverso è evitare di lasciare soli i pazienti o disporre modalità di vigilanza rispetto ad una sorveglianza stretta e continua 24 ore su 24.

Pensare che predisporre misure quali la sorveglianza stretta e continua possa evitare con certezza assoluta il verificarsi dell’evento suicidio significa non avere presente cosa avviene nei servizi e cosa rappresenta questa pratica; cosa vuol dire “stretta” (in tutti i luoghi e per ogni attività anche intima) e “continua” (in ogni momento, giorno e notte) e  come influisce sulla vita della persona che vi è sottoposta e di chi deve realizzarla? Non solo ma occorre vedere la fattibilità e sostenibilità di detta misura in particolare quando il rischio suicidario è molto protratto nel tempo e a volte continuativo. E’ immaginabile che una persona debba avere sempre accanto un operatore(un parente o una telecamera?) che debba sorvegliarla per impedirgli di suicidarsi? 

Nell’ambito dell’attività clinica psichiatrica non vi è la certezza assoluta che una sorveglianza stretta e continua possa prevenire il suicidio. Caso mai potrà forse ridurre un po’ (ma non è detto) il rischio a brevissimo termine ma mai annullarlo. Non solo ma l’essere sottoposto a misure coercitive e umilianti (si pensi ad esempio alle contenzioni, ai ricoveri coatti o a come viene applicata la sorveglianza continua negli Istituti Penitenziari dove i detenuti ad alto rischio di suicidio vengono messi in celle di isolamento, denudati, visto che anche i vestiti possono essere pericolosi, ecc.) e disumane (e quindi contra legem, dove è ogni privacy è sacrificata in nome della "sicurezza") può configurare esperienze traumatiche che poi nel tempo vanno ad aumentare i vissuti alla base delle condotte auto lesive e suicidarie.

Come debba essere gestito il rischio nell’ambito delle ordinarie strutture psichiatriche, dove le misure di sicurezza sono quelle delle ordinarie abitazioni, il rapporto utenti/personale è di norma di 10 ad 1, non permette di staccare un operatore per un’attività di sorveglianza che dovrebbe essere continua (anche nei bagni, nella doccia ecc.). Ma al di là di tutte le limitazioni organizzative (quale struttura può aumentare gli organici? E in breve tempo?), pratiche e di buon senso, il problema maggiore è il messaggio di fondo.

Cosa significa che la vita propria è sorvegliata dagli altri, dipende dalla costante presenza dell’altro? Non può essere il rischio/minaccia di suicidio un modo accettabile per tenere legata/avere accanto a sè un'altra persona. Si può innescare una spirale controllore-controllato dove quest’ultimo avrà sempre la meglio, in quanto il controllo assoluto dell’altro è un compito impossibile: non si può fare vivere l’altra persona solo perché la si sorveglia. 
Ne deriva una visione della cura come onnipotente nella risposta (mentre è assai carente nella comprensione e nel contratto) e questo può avere l’effetto secondario di deresponsabilizzare la persona che soffre la quale invece va aiutata a capire, a contenere, a diventare resiliente rispetto ai propri propositi  autolesivi, a vedere come riprendere, con fatica, la speranza e il futuro. La vita implica, contiene in se stessa, come immanente il tema della morte.Ben diversa dalla sorveglianza è prestare attenzione, lo stare accanto discreto, il cercare con il senso del limite e l’umiltà dell’operatore, per trovare insieme un sentiero, cogliere aspetti molto sottili e portare a possibili incerti cambiamenti. Uno scenario dove il rapporto con la morte, con la propria finitudine, con le persone care, con le contraddizioni fa parte del lavoro, di quello più profondo che lo psichiatra, se non ha paura, può fare assumendo una diversa e più avanzata nozione di responsabilità.

In certe perizie o sentenze si dà l’impressione che il medico psichiatra possa disporre, ordinare, organizzare gruppi di lavoro e spazi operativi. Non è così: gran parte delle decisioni  relativamente ad organici sono dell’alta dirigenza aziendale (o più spesso regionale/nazionale, basta guardare il recente appello sullo stato della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica sullo stato dei Servizi per la Salute Mentale in Italia).
 
L’organizzazione delle risorse disponibili (e non di quelle ideali) non dipende dai singoli psichiatri bensì dalle direzioni sanitarie e di dipartimento, dai direttori di struttura complessa e dalla direzione infermieristica e tecnica. Basterebbe tenere conto di questo per vedere a quale livello vadano collocate le eventuali responsabilità per carenze strutturali, organizzative e/o di organico. Nel caso specifico relativo ad esempio allo stato di sicurezza del ponteggio montato attorno alla struttura sanitaria e dal quale la paziente è precipitata.

Le sentenze, nel momento in cui fanno giurisprudenza e cultura, possono spingere inconsapevolmente i servizi e gli psichiatri verso pratiche difensive e formali con l’intento di pararsi da possibili accuse e condanne. Di fronte ad un paziente con rischio di suicidio chi non sarà tentato a scrivere “sorveglianza stretta e continua” visto che poi spetta ad altri la predisposizione e la sua effettiva realizzazione (magari con i familiari, badanti, telecamere ecc.…)  Una pratica quella della sorveglianza stretta e continua di fatto impossibile in particolar modo nei soggetti con disturbi mentali, nei quali il rischio suicidario è di lunga durata o continuativo, i tentativi di suicidio ripetuti e che entrano ed escono piuttosto frequentemente dai luoghi di ricovero. A fronte di questo si cercherà di evitare ogni rischio provvedendo all’effettuazione di TSO ripetuti? Non va dimenticato che prima della legge 180/1978 la pericolosità a sé e a agli altri (e la responsabilità ad essa connesse) era un potente fattore per il ricovero e poi di ostacolo alle dimissioni; oggi la posizione di garanzia potrebbe portare ad una spinta analoga ma in assenza di strutture adatte al contenimento/controllo si può diffondere la pratica dell’evitamento dei pazienti più gravi, complessi e di quelli a più alto rischio. 

Condividere il rischio è assai più faticoso, rispetto alla facile prescrizione di soluzioni apparenti. E alle grandi difficoltà cliniche è auspicabile che non si aggiungano anche quelle connesse alla magistratura.

Lavorare con il paziente, cercare di entrare nel suo mondo interiore, farlo con delicatezza, cercando di costruire insieme relazioni, alleanze e progetti, compito assai difficile e delicato può avvenire se ci si sente sicuri, se non si ha paura  ma il coraggio di essere autentici e di poter aiutare un'altra persona. Si corre un rischio, ma senza correre rischi non succede nulla di positivo per il paziente. 

Una causalità lineare, semplicista e riduzionista non solo non corrisponde alla realtà ma rischia di perdere di vista la complessità delle persone, delle psicopatologie e delle cure e può portare i clinici a "prescrivere" condotte ideali. 

Si realizza così una codificazione/cosificazione pseudoscientifica della disciplina dove il fare si distanzia totalmente dal comprendere, dove il giusto sta nella corresponsione alla norma e non nella sua azione nel mondo interno della persona, nelle sue relazioni anche queste uniche e irripetibili. Una “pseudo psichiatria”, povera, oggettivante, prescrittiva e in fondo sottilmente autoritaria o abbandonica ma sempre dalla parte del giusto e della certezza secondo un modello neopositivista (una diagnosi, una cura). Una psichiatria che vede il paziente psichiatrico come una persona sempre da proteggere da se stesso e da gli altri, in fondo sempre pericoloso, irresponsabile, incapace, da tutelare e di fatto con diritti diminuiti non è corretta nel sotto il profilo scientifico ed etico ma anche terapeutico.

Si determinerebbe una pratica del tutto al di fuori della complessità scientifica, dei molteplici fattori biologici, psicologi e sociali fortemente intrecciati e in reciproca costante influenza (anche nel suicidio), molto lontana dall’insieme degli elementi (orientati alla recovery) che portano al miglioramento e alla guarigione. Una psichiatria gentile e umile, consapevole dei suoi limiti nella prevedibilità dei comportamenti umani e della scarsa prevenibilità delle condotte aggressive, autolesive e suicidarie. Una psichiatria che può capire la complessità umana, e vede nella persona che soffre, un soggetto titolare di diritti/doveri e una risorsa per sé e la comunità e ne coglie e affronta con umanità le contraddizioni anche quelle più profonde, terribili e radicali.

Pietro Pellegrini
Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche 
Ausl di Parma


09 ottobre 2016
© Riproduzione riservata

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