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Quando sentiremo parlare di reciprocità tra le autonomie professionali?

di Simona Sallusti

07 AGO - Gentile direttore,
vorrei esprimere il disagio di una categoria professionale che, ancora oggi,non riesce a cambiare.

Sono un’infermiera “simplex” per dirla alla Del Vecchio, da venti anni nella corsia di un grande ospedale romano; le lezioni e gli scritti del Prof Cavicchi hanno cambiato il mio modo di vivere la professione e ogni giorno mi impegno nella conquista di autonomia e responsabilitaà; il percorso è tutto da compiersi, ad oggi la figura che rappresento è priva del legittimo riconoscimento professionale ed è percepita con vaghezza dalla maggior parte degli utenti; il rapporto tra infermieri e medici si destreggia tra la deferenza e una fiera pretesa di autodeterminazione professionale, terreno fertile per conflitti improduttivi.

Sconcertati dall’autonomia professionale degli infermieri, sancita dalla legge 42/99, i medici, per lo più, potrebbero ritenersi spodestati da una posizione di preminenza assoluta, senza aver potuto concorrere a definire una relazione alternativa; lo scarso peso attribuito alla relazione e una prospettiva ontologica del malato ormai obsoleta non giovano a nessuno.

La Medicina dei nostri giorni, pur potendo avvalersi di nuove frontiere scientifiche e di tecnologie avanzate, ha ritmi convulsi e occhi distratti verso i bisogni e i disagi dell'uomo che, al pari dei sintomi fisici, chiedono soddisfazione; i desideri e le storie personali non hanno ascolto, le istanze profonde vengono ammutolite e il corpo è parcellizzato a parti anatomiche da studiare, alla ricerca di cure risolutive, ma anche capaci di tutelare il benessere e l’integrità personale.

Come ripete da anni il Prof Cavicchi, oggi il malato vuole imporsi come individuo sapiente che, pur con le limitazioni derivanti dalla malattia, pretende di concordare il bene possibile con le istituzioni, persegue un proprio modello di benessere, reclama una sanità orientata alla domanda e non più monolitica nell’offerta; più di ogni altra cosa, ha ormai revocato ai medici e alle istituzioni la delega nelle decisioni sulla propria salute; si afferma come esigente ed è un consumatore di medicina desideroso di esprimere i propri gusti e preferenze, per il quale il bene salute riguarda non solo il corpo, ma anche le proprie opinioni, le aspettative e la propria, personale concezione di rispetto e dignità.

Il bisogno relazionale emerge prepotentemente come un’urgenza insoddisfatta, a fronte della quale occorre una adeguata presa di coscienza di tutti gli operatori, ancora soggiogati in vecchi schemi organizzativi, in condizioni lavorative penalizzate dal disinvestimento nell’assistenza, dalla scansione burocratica dei compiti e dalla negazione della specificità che differenzia il mondo sanitario da qualsiasi altro apparato della pubblica amministrazione.
 
La X Conferenza Nazionale di Bologna non rappresenta gli infermieri: è impossibile parlare di infermieri senza conoscere gli infermieri, senza chiedere loro cio’ che pensano e cio’ che vogliono; come sostiene la Dott.ssa Gostinelli, come si può dichiarare di voler “rendere gli infermieri protagonisti del proprio futuro”, quando nessuno interpella la massa degli infermieri in corsia, i quali devono accettare supinamente le decisioni altrui e non conoscono le strategie, mentre invece dovrebbero poter essere chiamati a discutere di salute?
 
Gli infermieri sono altro da chi li dirige e l’evoluzione manageriale non intacca la massa degli infermieri nelle corsie, cosicché se un cambiamento investe solo una parte esigua delle persone coinvolte, a quali risultati dovrebbe condurre?

Non mi interessa fare il mini medico, ma voglio essere riconosciuta come professionista, voglio autonomia e responsabilità, per essere un autore, come grida da anni il Professor Cavicchi, vicino come pochi agli infermieri e attento conoscitore dei problemi stagnanti che affliggono la sanità.

Le contrapposizioni tra le professioni sono improduttive, io desidero lavorare con i medici e con tutte le figure professionali che vedo alternarsi in corsia, perché ambisco alla sinergia e non al conflitto, e riconosco nella reciprocità l’unica soluzione.

Non mi interessa armarmi di competenze tecnico scientifiche per contendere il ruolo ai medici, io voglio restare accanto al malato e offrire al medico il mio sguardo, in modo da fargli sapere ciò che del malato non sa.
 
Voglio poter fronteggiare tutta la complessità di questo nuovo malato e voglio poter offrire risposte soddisfacenti al contesto sociale che evolve incessantemente, e a cui la sanità non sa ancora offrire risposte adeguate, poiche’ alla modifica della normativa non ha fatto seguito una modifica dell’organizzazione del lavoro.

Il lavoro in corsia è troppo spesso avvilente, l’infermiere è demansionato e ancora svilito in compiti e routine, utilizzato impropriamente per sanare le falle di un’organizzazione priva di equilibrio; siamo sideralmente lontani dalla dirigenza infermieristica, entità niente affatto vicina e sconosciuta.

Nemmeno nel Codice Deontologico possiamo ravvisare una guida nella professione, a cui non sa offrire risposte chiare ed inequivocabili; non riconosce il cambiamento del paziente in esigente; non esplicita la necessità di un patto di corresponsabilità con i cittadini; omette di definire i rapporti con le altre professioni.
 
Un Codice Deontologico dovrebbe porsi a difesa intransigente dei malati e degli operatori, senza concedere agli ideali dell'economicismo la possibilità di discutere l’etica; la deontologia, mentre sottolinea l’autonomia della professione infermieristica, omette di risolvere la dicotomia medico-infermiere e non definisce la collaborazione tra le due figure in una modalità nuova, che tenga conto dell’evoluzione professionale e sociale.

Quando sentiremo parlare di reciprocità tra le autonomie professionali e non di “sfide”, dal momento che la tanto invocata “centralità del paziente non ha bisogno di contrapposizioni ma di cooperazione?
 
Simona Sallusti
Infermiera

07 agosto 2018
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