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Speciale Asco. Gli studi ‘landmark’ della sessione plenaria

di Maria Rita Montebelli

Quattro importanti trial clinici su tumore della mammella, prostata e colon-retto, sono stati presentati al cospetto di una platea-fiume al congresso del’Asco. Gli studi selezionati per la sessione plenaria sono, secondo gli esperti della società scientifica americana, i più importanti dell’anno dal punto di vista della ricerca e quelli con il maggior impatto potenziale sulla pratica clinica quotidiana. Tutti questi trial sono stati realizzati, almeno in parte, con fondi di ricerca dei National Institutes of Health.

02 GIU - Exemestane in adiuvante, nelle donne in età fertile con tumore della mammella. L’exemestane , somministrato dopo l’intervento chirurgico a giovani donne con cancro della mammella in stadio precoce, ormono-sensibile, risulta più efficace del tamoxifene, quando associato alla soppressione della funzione ovarica, nel prevenire le recidive di tumore; il rischio relativo di sviluppare una recidiva viene così abbattuto del 28%. Sono i risultati di questo studio ‘landmark’, che derivano dall’analisi di due trial di fase III, il TEXT e il SOFT, condotti dall’International Breast Cancer Study Group (IBCSG), in collaborazione con il Breast International Group (BIG) e il North American Breast Cancer Group (NABCG) e che hanno coinvolto 27 Paesi in 6 continenti. Si tratta del più vasto studio mai condotto al mondo in questo campo e il primo ad aver dimostrato il valore dell’exemestane in questa categoria di pazienti. L’inibitore delle aromatasi è così risultato in grado di prevenire le recidive di tumore della mammella, nelle donne in premenopausa, con tumore ormono-sensibile e sottoposte a terapia di soppressione della funzione ovarica (OFS, ottenuta mediante somministrazione di triptorelina, ovariectomia o irradiazione ovarica), in maniera più efficace del vecchio tamoxifene. In particolare, l’exemestane, associato all’OFS, ha ridotto del 28% il rischio di una recidiva di tumore invasivo (la sopravvivenza libera da malattia a 5 anni era del 91,1% nel gruppo exemestane, contro l’87,3% del gruppo tamoxifene) e del 34% il rischio relativo di una recidiva di tumore della mammella, rispetto al trattamento tamoxifene-OFS. “I nostri risultati – commenta Olivia Pagani, primo autore dello studio e direttore del Centro di Senologia dell’Istituto Oncologico della Svizzera meridionale a Bellinzona (Svizzera) – confermano che l’exemestane è una valida alternativa al trattamento tradizionale con tamoxifene, in questa categoria di pazienti. Un follow up di durata maggiore sarà necessario per valutare la sopravvivenza, eventuali effetti collaterali e l’impatto sulla fertilità delle pazienti”. Il trattamento ormonale adiuvante standard consigliato per le donne in premenopausa è attualmente il tamoxifene per cinque anni. L’analisi congiunta dei due studi TEXT e SOFT ha interessato 4.690 donne di età media 43 anni. La compliance al trattamento è stata elevatissima, con un drop out precoce di appena il 14%. “Le giovani donne con un tumore della mammella – afferma Clifford A. Hudis, presidente dell’ ASCO e direttore del Breast Cancer Medicine Service presso il Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York - necessitano di ulteriori opzioni terapeutiche dopo l’intervento chirurgico e questo studio dimostra che l’exemestane può essere una di queste; il tamoxifene è stato gold standard di trattamento per molti anni, ma adesso, con la soppressione ovarica, anche gli inibitori delle aromatasi rappresentano un’alternativa”.
 
Tumore della prostata metastatico: il docetaxel, associato a terapia ormonale,prolunga la sopravvivenza nelle forme ormono-sensibili. Lo studio di fase III, E3805, dimostra che aggiungere il chemioterapico docetaxel alla terapia ormonale tradizionale, nei pazienti con carcinoma della prostata ormono-sensibile, metastatico, neo diagnosticato, prolunga la sopravvivenza di circa 10 mesi. Il beneficio è particolarmente evidente nei pazienti con malattia estremamente diffusa, ma in grado di tollerare la chemioterapia. “La terapia ormonale (ADT) – spiega Christopher Sweeney, primo autore dello studio e oncologo del Lank Center of Genitourinary Oncology al Dana-Farber Cancer Institute di Boston – è stato lo standard di trattamento dagli anni ’50 in poi. Questo studio ha individuato una nuova strategia che consente di prolungare la sopravvivenza in modo sostanziale nei pazienti con tumore neodiagnosticato; per questo, ha tutte le caratteristiche per essere proposto come nuovo standard di trattamento nei soggetti in grado di tollerare la chemioterapia”. Attualmente, la chemioterapia trova indicazione solo alla progressione della malattia, dopo la comparsa di ormono-resistenza. Lo studio, finanziato dal National Cancer Institute americano, ha interessato 790 uomini con tumore della prostata ormono-sensibile neodiagnosticato, che sono stati randomizzati ad ADT o ad ADT-docetaxel, per un periodo di 18 mesi; 2 pazienti su 3, presentavano malattia diffusa alle ossa o agli organi principali. A 29 mesi di follow up, sono stati registrati 136 decessi nel gruppo ADT, contro 101 nel gruppo ADT-docetaxel; la sopravvivenza media (OS) è stata di 44 mesi nel gruppo ADT e di 57,6 mesi nel gruppo ADT-docetaxel, ma nel gruppo con la malattia in stadio più avanzato è stata rispettivamente di 32,2 mesi e di 49,2 mesi. “Questi risultati – commenta Clifford Hudis, presidente dell’ASCO – dimostrano come anche dei ‘vecchi strumenti’ possano essere utilizzati in maniera efficace per estendere la sopravvivenza dei pazienti; questo studio testimonia anche l’importanza del supporto del NCI alla ricerca, visto che, essendo queste terapie disponibili come generici, questa ricerca non avrebbe probabilmente mai visto la luce”.
 
Tumore del colon retto con KRAS non mutato: risultato di parità nel match bevacizumab-cetuximab. Il bevacizumab e il cetuximab, nel primo studio ‘testa a testa’, hanno dato risultati simili in termini di sopravvivenza, nei pazienti con carcinoma del colon-retto metastatico. In questo studio, ampiamente finanziato da fondi pubblici, sono stati confrontati quattro regimi di trattamento di prima linea (bevacizumab più chemioterapia e cetuximab più chemioterapia), dimostrando una sostanziale equivalenza, in termini di efficacia, nei pazienti con carcinoma del colon retto con KRAS wild type; questo offre a medici e pazienti nuove informazioni per il fine-tuning della scelta terapeutica. I risultati dello studio suggeriscono inoltre che sia lo schema FOLFOX (oxaliplatino/5-fluorouracile/leucovorina), che il FOLFIRI (irinotecan/5-fluorouracile/leucovorina) sono associabili ad entrambi i farmaci biologici. Le terapie a target hanno giocato un ruolo importante nell’estendere la sopravvivenza dei pazienti con carcinoma del colon retto metastatico, che è passata dai 10 mesi di 20 anni fa, agli attuali due anni e mezzo, osservati in questo studio. Il bevacizumab è un anticorpo monoclonale anti-VEGF, cioè un anti-angiogenetico; il cetuximab ha invece come target l’EGFR, una proteina importante nella crescita e della diffusione del tumore. In questo studio, 1.137 pazienti, con carcinoma del colon retto metastatico sono stati randomizzati a bevacizumab più chemioterapia o a cetuximab più chemioterapia (il 26,6% dei pazienti è stato trattato on FOLFIRI, il 73,4% con FOLFOX). La sopravvivenza media, in entrambi i gruppi è stata di 29 mesi, senza differenze significative di PFS e di OS. Gli effetti collaterali sono però diversi sia nel caso dei biologici (per il bevacizumab ipertensione, cefalea, stomatiti, epistassi, diarrea, rettorragia, perdita di appetito, fatigue; per il cetuximab dermatite acneiforme, prurito, alterazioni delle unghie, infezioni, fatigue e alterazioni elettrolitiche), che con i due regimi di chemioterapia (il FOLFIRI causa maggiore caduta di capelli e diarrea, mentre il FOLFOX dà una neuropatia che può richiedere la sospensione del trattamento). In generale inoltre, il cetuximab è più utilizzato in Europa, mentre il bevacizumab negli Usa. Ulteriori analisi di questo studio, esploreranno i benefici dei due biologici in diversi sottogruppi di pazienti.
 
Il lapatinib in aggiunta al trastuzumab in adiuvante, non prolunga la sopravvivenza nel carcinoma della mammella HER2-positivo in stadio precoce. Lo studio di fase III ALTTO (Adjuvant Lapatinib and/or Trastuzumab Treatment Optimisation) dimostra che l’associazione di questi due trattamenti anti-HER2 non migliora la PFS, rispetto al trattamento standard con il solo trastuzumab. La PFS a 4 anni è risultata infatti dell’86-88% in entrambi i gruppi di trattamento. “L’aggiunta di lapatinib – spiega Edith A. Perez, vice-direttore del Mayo Clinic Cancer Center di Jacksonville (USA) – non ha aggiunto alcun ulteriore beneficio rispetto alla terapia con il solo trastuzumab, in adiuvante. Un risultato che ci ha sorpreso, visto che l’associazione di questi farmaci aveva dato risultati promettenti in neoadiuvante, in un piccolo studio (il NeoALTTO). E la lezione da trarre è che c’è bisogno di dati solidi, in contesti specifici di malattia, per comprendere appieno il valore dei nuovi regimi di trattamento”. Il trattamento post-chirurgia con trastuzumab e chemioterapia riduce in maniera significativa il rischio di una recidiva tumorale e di mortalità nelle donne con carcinoma della mammella HER2 positivo in stadio precoce. Tuttavia, il 20% circa delle pazienti, presentano una recidiva nei successivi 10 anni. Scopo di questo studio era di esplorare nuovi modi per ridurre il rischio di recidiva, utilizzando un’associazione di due farmaci antiHER2, anziché uno solo. In questo, che è il più grande trial clinico in adiuvante, mai realizzato nel carcinoma della mammella HER2 positivo, sono state coinvolte 8.381 pazienti, afferenti a 946 centri in 44 Paesi, con carcinoma della mammella in stadio precoce. Dopo l’intervento chirurgico, le pazienti sono state randomizzate al trattamento con trastuzumab e lapatinib (in concomitanza) o a trastuzumab seguito da lapatinib (braccio sequenziale) o al solo trastuzumab per un anno. Tutte sono state trattate anche con chemioterapia e, quelle ormono-sensibili, anche con terapia anti-ormonale. I dati di sopravvivenza senza malattia a  4 anni sono risultati simili nei tre rami di trattamento (86% nel gruppo trastuzumab, 88% nell’associazione concomitante dei due biologici, 87% nel braccio ‘sequenziale’). Le pazienti trattate con l’associazione degli anti-HER2 hanno riportato un maggior numero di effetti collaterali (diarrea, rash cutaneo, problemi epatici). Inferiore all’1% infine è stato il tasso dei casi di scompenso cardiaco, sebbene il 95% delle pazienti fosse in trattamento con antracicline; un dato questo, secondo gli sperimentatori, che dovrebbe rassicurare sulla safety dei regimi chemioterapici a base di antracicline, seguiti dal trastuzumab. “I risultati di questo studio – commenta Clifford A. Hudis –  sottolineano l’importanza di progettare in maniera appropriata i trial clinici; in questo ampio trial clinico, i risultati dell’associazione dei due anti-HER2, ottenuti nello studio in neoadiuvante, non sono stati confermati in adiuvante. Si conferma inoltre la safety e la grande efficacia del trastuzumab, come trattamento adiuvante nelle pazienti con carcinoma della mammella HER2 positivo”.
 
Maria Rita Montebelli

02 giugno 2014
© Riproduzione riservata

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