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I grassi saturi della dieta, in particolare l’acido palmitico, aumentano il rischio di infarto. Ecco come proteggersi

di Maria Rita Montebelli

I grassi saturi della dieta aumentano il rischio di infarto. Lo ribadisce un’analisi condotta da ricercatori dell’Università di Harvard che ha attinto a due grandi studi, il Nurses’ Health Study e l’Health Professional Follow-up Study. Dall’analisi del rischio relativo ai singoli grassi saturi, emerge che il più pericoloso per la salute delle coronarie è l’acido palmitico (aumenta il rischio del 18%). Ma si può e si deve correggere questo rischio. Come? Gli autori dello studio hanno calcolato che sostituire l’1% delle calorie derivanti dall’assunzione di acido palmitico, con quelle fornite da grassi polinsaturi, da grassi monoinsaturi, da cereali integrali o da proteine vegetali, ridurrebbe il rischio di coronaropatia rispettivamente del 12%, dell’8%, del 10% e dell’11%.

29 NOV - Chi consuma grandi quantità di grassi saturi con la dieta è destinato a fare più infarti. Per questo le raccomandazioni dietetiche sulla prevenzione delle coronaropatia dovrebbero continuare a stressare il concetto che in una dieta i grassi saturati dovrebbero essere rimpiazzati da fonti energetiche più salutari. A ribadire questo messaggio, mai passato di moda ma a volte un po’ caduto nel dimenticatoio o appannato da informazioni fuorvianti, è un lavoro appena pubblicato su British Medical Journal, che rappresenta il più ampio studio osservazionale mai condotto sull’esame dell’associazione tra consumo dei singoli grassi saturi e rischio di malattia coronarica.
 
Lo studio, a firma di ricercatori dell’Università di Harvard, ha preso in esame i dati di due importanti studi prospettici e longitudinali, il Nurses’ Health Study (73.147 donne, 1984-2012) e l’Health Professional Follow-up Study (42.635 uomini, 1986-2010) per valutare la possibile esistenza di un’associazione tra assunzione di una serie di acidi grassi saturi, considerati singolarmente, e il rischio di coronaropatia.
 
Nel follow up di questi due studi sono stati segnalati 7.035 casi di coronaropatia (auto-riferiti), mentre i dati di mortalità sono stati desunti dal National Death Index o per segnalazione di un familiare e dell’autorità postale. Tutti i casi sono stati quindi confermati andando ad esaminare le cartelle cliniche relative.
 
Il consumo medio di acidi grassi saturi è risultato in media pari al 9-11,3% delle calorie totali assunte ogni giorno e i grassi saturi più rappresentati nella dieta erano: acido laurico, acido miristico, acido palmitico e acido stearico.
 
Andando a fare un confronto tra i soggetti con il elevato consumo di acidi grassi saturi e quelli con il consumo più basso è emerso che il rischio di coronaropatia aumentava del 7% per i grandi consumatori di acido laurico, del 13% per quelli di acido miristico, del 18% per i grandi consumatori di acido palmitico o di acido stearico. Il rischio di cardiopatia ischemica risultava inoltre maggiorato del 18% negli grandi consumatori di tutti questi acidi grassi saturi considerati insieme, rispetto a che ne faceva un consumo modesto.
La buona notizia è che rimpiazzare l’1% delle calorie derivanti dai grassi saturi con dei grassi polinsaturi riduce dell’8% il rischio di coronaropatia; sostituirli con grassi monoinsaturi riduce il rischio del 5%, con carboidrati integrali del 6% e con proteine vegetali del 7%.
 
Andando poi ad applicare questa simulazione relativa alla sostituzione dell’1% delle calorie derivanti dai grassi saturi con altri alimenti più sani e scorporandola per i singoli grassi saturi, la riduzione di rischio più consistente per coronaropatia si otteneva andando a rimpiazzare l’acido palmitico, il grasso saturo più rappresentato nella dieta. Così, rimpiazzare l’1% delle calorie derivanti dall’acido palmitico con grassi polinsaturi, riduce il rischio di coronaropatia del 12%, sostituendolo con monoinsaturi dell’8%, con cereali integrali dell’10% e dell’11% rimpiazzando queste calorie con quelle delle proteine vegetali.
 
La maggior parte delle linee guida dietetiche raccomanda di limitare il consumo di acidi grassi saturi al di sotto del 10% delle calorie giornaliere totali, come forma di prevenzione delle malattie cardiovascolari.
 
La sostituzione dei grassi saturi con grassi polinsaturi, come dimostrano studi prospettici su vasta scala e studi di intervento è in grado di ridurre i rischio di coronaropatia. Più frequentemente tuttavia nel quotidiano le calorie derivanti dai grassi saturi vengono più spesso rimpiazzate con carboidrati di bassa qualità, che certo non hanno un buon effetto sulle malattie cardio-metaboliche, sull’obesità e sul diabete.
 
Gli autori insomma sottolineano che non è sostituendo i grassi dannosi con i carboidrati raffinati, altrettanto dannosi, che si può venir fuori dal problema.
E non ha neppure senso fare di ogni erba un fascio. Anche tra i grassi ‘cattivi’ ce ne sono alcuni peggiori di altri. Così, ricordano gli autori dello studio pubblicato su BMJ, gli studi di intervento hanno costantemente collegato l’assunzione dei grassi saturi con un peggioramento del profilo lipidico; ma una recente metanalisi di trial clinici ha individuato nell’acido laurico, in quello miristico e in quello palmitico quelli che determinano un aumento più significativo dei livelli di colesterolo totale e LDL; l’acido stearico ad esempio non sembra avere un grande impatto sull’assetto lipidico.
 
Ma oltre all’impatto ‘teorico’ dei singoli grassi saturi sulla salute delle coronarie, è anche importante andare a vedere quanto siano rappresentati nella dieta. Nel corso del follow up di questi due grandi studi prospettici considerati dai ricercatori di Harvard, il grasso saturo più rappresentato nella dieta è risultato essere l’acido palmitico (5,7% sia tra gli uomini che tra le donne), seguito a distanza dall’acido stearico (2,6% in entrambi i sessi) e dal miristico (rispettivamente lo 0,9% nelle donne e lo 0,8% negli uomini); ancor meno rappresentato è l’acido laurico e gli altri grassi saturi a minor numero di legami, che danno un contributo alle calorie dietetiche pari allo 0,2% nelle donne e allo 0,5% negli uomini.
 
Nell’insieme  risultati di questo studio supportano i contenuti delle linee guida dietetiche che consigliano di sostituire i grassi saturi della dieta con grassi insaturi. Ciò significa sostituire i grassi animali (burro, lardo, ecc.) con grassi vegetali ricchi di grassi insaturi (come l’olio d’oliva). Ma non è così facile. Molti snack (crackers, patatine, pop-corn, merendine) – ricordano gli autori – sono anch’essi importanti fonti dietetiche di grassi saturi ‘nascosti’. Questo perché nella produzione di questi alimenti e per una loro migliore conservazione vengono utilizzati dei grassi che siano stabili a temperatura ambiente o di cottura. Questi grassi per di più non vengono utilizzati solo dalla grande industria alimentare, ma anche da panetterie artigianali o ristoranti. Non è facile insomma tenere i conti di quanti se ne consumano.
 
L’olio di palma – ricordano gli autori – il grasso alimentare prodotto in maggior quantità nel mondo è fatto per oltre il 40% da acido palmitico, mentre l’olio di cocco e i palmisti contengono oltre il 45% di acido laurico. Diversi studi confermano un aumento del consumo di olio di palma nella produzione di alimenti, soprattutto nelle nazioni occidentali negli ultimi anni.
“Questi trend – concludono gli autori – potrebbero portare a conseguenze indesiderate e richiedono la ricerca di soluzioni efficaci e integrate che coinvolgano industria alimentare, consumatori e politici. Secondo un modello economico-epidemiologico, la tassazione dell’olio di palma in India potrebbe prevenire oltre 363.000 decessi da cause cardiovascolari nell’arco dei prossimi 10 anni.”
 
Maria Rita Montebelli

29 novembre 2016
© Riproduzione riservata

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