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“Perché le diete ci fanno ingrassare?”. Il libro di Sandra Aamodt, tra autobiografia e ricerca

di Paola Porciello

L'autrice è una nuroscienziata americana che ha seguito svariate diete per trent'anni. Poi ha cominciato a mangiare quando aveva fame e smettere quando si sentiva sazia; ha smesso di pesarsi, ha inserito l’attività fisica nella sua agenda, e nel giro di un anno ha raggiunto l’agognato obiettivo: rimanere in forma e in salute senza l’ossessione della dieta

03 MAG - Sandra Aamodt è una neuroscienziata statunitense. Ha fatto la sua prima dieta quando aveva tredici anni. Da lì è iniziata la sua personale disavventura durata trent’anni, una storia in cui molti possono riconoscersi, fatta di chili persi e poi recuperati, in un ciclo “yo-yo” senza fine.
Poi, un giorno, la decisione di cambiare radicalmente strategia. Come racconta nella Ted talk del 2014, prendendo spunto dalla sua ricerca, la Aamodt ha cominciato a fare affidamento sui segnali di fame e sazietà provenienti dal suo corpo. Mangiava quando aveva fame e smetteva quando si sentiva sazia. Ha smesso di pesarsi, ha inserito l’attività fisica nella sua agenda, e nel giro di un anno ha raggiunto l’agognato obiettivo: rimanere in forma e in salute senza l’ossessione della dieta.

La ricerca della Aamodt è diventata poi un libro, “Why diets make us fat” (2016), un misto di studi scientifici ed esperienza personale, destinato a rimettere in discussione tutto quello che sapevamo sulle diete: dalla loro reale efficacia ai meccanismi neurobiologici che regolano il peso corporeo, fino a tutti i temi collegati all’ossessione del mondo contemporaneo nei confronti della magrezza, come il rischio di scivolare in un disturbo dell’alimentazione e il fenomeno dell’obesità, ormai da molti considerato un’epidemia.

Il titolo è chiaramente provocatorio. Come fanno le diete a farci ingrassare? Eppure, è esperienza comune di molte persone che desiderano perdere peso, di riuscire a buttare giù qualche chilo nelle fasi iniziali di una dieta, ma di riguadagnarlo negli anni successivi. A meno di non rimanere ancorati a rigidissime regole alimentari, di solito si torna alla situazione precedente alla dieta, con qualche etto in più. Quando le diete vengono ripetute negli anni, si finisce quindi per ingrassare. Ed è sempre più difficile tornare al “peso forma ideale”. Perché questo, il “peso ideale”, non lo stabiliamo noi in base alla nostra forza di volontà. È il nostro cervello a stabilirlo, nello specifico l’ipotalamo, che regolando il sistema complesso del metabolismo, mantiene stabile il nostro peso nel corso del tempo all’interno di una fascia precisa.

L’autrice mette in chiaro un punto nevralgico: non esiste alcun fondamento scientifico a supporto delle diete. Non ci sono ricerche che dimostrino che la perdita di peso sia collegata a miglioramenti nello stato di salute a lungo termine. E questo vale sia se si parte da un leggero sovrappeso che da una condizione di obesità. Esistono invece studi che dimostrano che perdere e recuperare continuamente chili è molto più pericoloso dell’essere sovrappeso.

Il benessere derivante dallo stare a dieta, sostiene l’autrice, è temporaneo ed è dovuto ad altri fattori, e cioè al fatto che quasi sempre essa si associa a un regime alimentare più sano (povero di zucchero, grassi e carboidrati e ricco di frutta e verdura) e all’aumento dell’esercizio fisico. Variabili, queste, che sono invece solidamente supportate dalla ricerca nel loro effetto benefico sullo stato di salute. Il problema sorge quando la dieta finisce e le persone tornano gradualmente a una condizione di “normalità”, il che conduce quasi inevitabilmente al recupero dei chili persi e all’abbandono delle pratiche salutari associate alla dieta. Ma c’è di più.

Per lunghissimo tempo il nostro cervello ha dovuto adattarsi a una condizione permanente di poca disponibilità di risorse, per garantire la sopravvivenza. La mancanza di cibo fa sempre scattare un allarme, mettendo in moto una serie di aggiustamenti interni, tra cui il rallentamento del metabolismo. In questo modo si limita il calo ponderale nei periodi di scarsità di risorse.

I nostri antenati non conoscevano la sovrabbondanza alimentare dei nostri giorni, tipica soprattutto delle zone più ricche del pianeta. I tempi sono cambiati, ma il nostro cervello non ha certamente smesso di esercitare il suo compito. Quando siamo a dieta scatta l’allarme e il sistema nervoso centrale fa di tutto per mantenerci all’interno di quella che viene definita defended weight range, ovvero quella fascia di peso che il cervello considera giusta per la nostra sopravvivenza. Alla fine di una dieta, per paura di ritrovarsi in una nuova condizione di “carestia”, il cervello aggiunge sempre qualche etto al range prestabilito. E così, dieta dopo dieta, una volta recuperati i chili persi, si finisce addirittura per ingrassare.

Qual è dunque l’alternativa? Come sostiene l’autrice nella terza e ultima parte del libro, bisogna uscire dalla mentalità del “peso ideale” e entrare in una logica di “stili di vita sani”, associati a un approccio più consapevole all’alimentazione, che definisce di tipo “intuitivo”. Imparare a riconoscere gli stimoli di fame e sazietà che ci manda il nostro corpo è il primo fondamentale passo in questa direzione. Se gli effetti a lungo termine delle diete sono poco chiari, è invece un fatto che trovare un equilibrio individuale che tenga conto delle proprie caratteristiche corporee è un predittore di salute assai più attendibile della ricerca del peso ideale.
 
Paola Porciello

03 maggio 2017
© Riproduzione riservata

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