I prezzi dei farmaci in Italia sono più bassi della media. Ecco perché lo studio di “Medbelle” è molto approssimativo, ma la colpa è anche della non disponibilità di dati certi
di Federico Spandonaro
Il modo con cui l’indice messo a punto dal provider britannico viene proposto, a parte la “colpevole” ingenuità dell’approccio, farebbe propendere per non prenderlo proprio in considerazione, anche per non cascare nella trappola, comune di questi tempi, di avvalorare fake news, che si alimentano per effetto del fatto che parlandone portano comunque visibilità a chi le “confeziona”. Ma un indice approssimativo come questo non avrebbe alcun “successo” se il dato reale fosse disponibile.
23 NOV - Il 21 Novembre
Quotidiano Sanità ha dato evidenza a un lavoro della Società
Medbelle, dal titolo “
2019: medicine price index”: dal confronto internazionale effettuato, risulterebbe per l’Italia un prezzo dei farmaci molto alto.
L’articolo ha provocato l’immediata e vibrante protesta delle Associazioni di categoria (
Farmindustria e
Assogenerici). La redazione di QS, a seguito dell’interesse suscitato dall’”indice”, mi ha sollecitato a valutare l’attendibilità dei risultati dell’“indice”, fornendomi anche i materiali disponibili.
A fronte di una descrizione della metodologia fornita da Medbelle sintetica al punto da non essere esplicativa, ho con pazienza ricostruito le elaborazioni: per la verità fino all’ultimo passaggio, quello relativo all’aggregazione nell’indice finale delle differenze sui singoli farmaci; al risultato di questa ultima aggregazione riesco ad avvicinarmi molto, ma non a ottenere un “numero” identico.
Ciò premesso, vale subito la pena di dichiarare che ritengo l’indice un esercizio poco scientifico e quindi non attendibile.
Che l’approccio non abbia criteri di scientificità accettabili è immediatamente percepibile dalla inadeguatezza delle descrizioni sulle fonti utilizzate e sulla metodologia utilizzata.
Ancora prima di fare valutazioni sulle elaborazioni non si può evitare di notare che:
1) considerare solo 13 farmaci è chiaramente inaccettabile: quale che sia il risultato, non si tratta di un campione rappresentativo, tanto che sommano una quota esigua della spesa e dei consumi farmaceutici;
2) se il numero di farmaci analizzati è del tutto insufficiente, al contrario considerare 50 Paesi, dagli USA alla Thailandia, passando per l’India è del tutto “sovrabbondante”; non solo per le differenze di dimensioni e di sviluppo economico dei Paesi, ma anche per quelle regolatorie; confrontare Paesi che hanno approcci diversi in termini di protezione dei diritti di proprietà (i brevetti per intenderci) distorce i risultati; e se a Paesi molto poveri viene concesso un accesso a prezzi inferiori, dovrebbe essere considerato una “buona notizia” e non una causa di “inspiegabile” variabilità;
3) non si capisce, poi, che prezzi siano stati usati: presumibilmente quelli di listino (peraltro, sembrerebbe, di diversa fonte e natura); di certo i prezzi di listino non sono rappresentativi, basti pensare che in Italia quelli reali arrivano a discostarsene anche del 30/40% (e più).
Se quindi l’impostazione generale non sembra affatto “solida”, ancora meno lo sono le elaborazioni effettuate.
Dalle informazioni fornite si desume, in primo luogo, che nei confronti non sono stati considerate le quantità vendute: ognuno dei 13 farmaci pesa nello stesso modo. Va da sé che un Paese potrebbe avere un prezzo più basso su un farmaco con un fatturato molto importante e un prezzo più alto per uno con un impatto limitato, e l’approccio utilizzato potrebbe invertire completamente il segno dei risultati.
In secondo luogo, il calcolo della mediana complessiva (
branded+generici), è stata fatta su tutti i prezzi raccolti, dei 50 Paesi, mettendo insieme sia i generici che i
branded: anche in questo caso ne risulta un indicatore che non ha alcun significato statistico, essendo state “mischiate” due distribuzioni del tutto inconfrontabili; tenendo anche conto che per i
branded si usa un prezzo di listino (quindi ante perdita della protezione brevettuale), e non quello reale praticato nelle gare.
In terzo luogo, contraddicendo alla regola generale di considerare le mediane, per calcolare lo scostamento dei singoli Paesi dalle mediane stesse, viene invece fatta una banale media fra prezzo del generico e del
branded, che nuovamente non ha senso da un punto di vista statistico, in quanto non prende in considerazione le diverse quantità vendute.
Potremmo andare avanti a segnalare “ingenuità”, ma credo che quanto sopra sia sufficiente a giustificare un sano scetticismo sulla significatività dell’indice proposto.
Il modo con cui l’indice viene proposto, a parte la “colpevole” ingenuità dell’approccio, farebbe propendere per non prenderlo proprio in considerazione, anche per non cascare nella trappola, comune di questi tempi, di avvalorare
fake news, che si alimentano per effetto del fatto che parlandone portano comunque visibilità a chi le “confeziona”.
Allo stesso tempo, l’occasione è ghiotta per fare una riflessione più generale sui dati disponibili e sull’importanza dei confronti internazionali.
La reazione dei produttori e, in generale, l’interesse del tema, indirettamente confermano l’importanza della questione confronti; e non potrebbe che essere altrimenti, visto che avere contezza della capacità del Paese in termini di negoziazione delle tecnologie, è fondamentale sia per l’impatto sui conti pubblici, sia per quello sulle possibilità di accesso alle terapie.
Se, quindi, sull’importanza del tema non ci sono dubbi, sul reale interesse degli
stakeholder a risultare
accountable sembra possano essercene molti.
Un indice approssimativo, come quello oggetto della presente riflessione, infatti, non avrebbe alcun “successo” se il dato reale fosse disponibile.
Nel Rapporto che C.R.E.A. Sanità presenterà il prossimo 11 Dicembre, affrontiamo fra l’altro il tema del confronto a livello internazionale dei prezzi dei farmaci e, posso anticipare,
sembra esserci ragionevole contezza del fatto che i prezzi in Italia siano mediamente più bassi della media europea, contrariamente a quanto sostenuto dal “
medicin price index”; ma, con assoluta trasparenza, bisogna ammettere, che i confronti ad oggi elaborabili sono costruiti sulle sabbie mobili di dati di confronto internazionali del tutto disomogenei.
Da anni l’OECD, che pure è la fonte più autorevole di confronti internazionali in campo sanitario, sulla spesa farmaceutica pubblica dati in cui le note che spiegano le differenze fra Paesi sono “più lunghe” delle cifre fornite.
Per l’Italia, per la quale disponiamo di un dato assolutamente affidabile e esaustivo, è facile verificare uno scostamento con i dati OECD di miliardi di euro.
E, malgrado le reiterate segnalazioni dei ricercatori, non sembra esserci alcun interesse, né da parte pubblica, né da parte privata a fare chiarezza e “correggere il tiro”.
A scanso di equivoci, ammetto che non sono affatto un paladino della “trasparenza a tutti i costi”, poiché ritengo che la “trasparenza” sia solo uno dei principi coinvolti nelle complesse dinamiche (il cui approfondimento esula dai limiti del presente contributo) che regolano i rapporti fra sistemi sanitari (in larga misura pubblici) e sistema industriale.
In altri termini, capisco che ci siano buone ragioni per non “sostenere” una puntuale, ovvero a livello di singolo farmaco, trasparenza, lasciando margini di flessibilità che sono necessari per le negoziazioni.
Ma trovo assurdo e “colpevole” che non si riesca ad avere un banale dato aggregato che confronti quanto spendiamo per i farmaci e quanti ne consumiamo(e criteri per aggregare i consumi in modo ragionevole ce ne sono…): e questa carenza è, senza alcun dubbio, una violazione importante del principio di
accountability.
In definitiva, la riflessione finale potrebbe essere che la cattiva scienza (che scienza non è), alla fine è sempre alimentata dai “vuoti” lasciati da una insufficiente attenzione a produrre “buona scienza”.
Federico Spandonaro
Università degli Studi di Roma Tor Vergata, Presidente di C.R.E.A. Sanità
23 novembre 2019
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