Coronavirus. Il paziente “0” è tedesco? Quando caccia all’untore non porta da nessuna parte
di Camilla de Fazio
La diffusione del virus SARS- CoV-2 in Europa potrebbe essere partita dalla Germania, ma non è affatto certo, è solo una delle ipotesi e la storia della trasmissione del virus è molto articolata. E a dircelo non è una lettera del New England Journal of Medicine (NEJM) come molti media e il conseguente tam tam sui social hanno sostenuto nelle ultime ore. Ecco cosa c'è dietro la notizia di ieri sul presunto paziente "zero" tedesco
06 MAR - In queste ultime ore abbiamo assistito ad un fenomeno che dovrebbe far riflettere. Molti media hanno scritto che la diffusione del virus SARS-CoV-2 in Europa è partita dalla Germania e, a supporto di questa tesi, sono citati due studi: una lettera pubblicata sul
New England Journal of Medicine il 5 marzo e un’analisi filogenetica del virus pubblicata sul sito di
Nextstrain. Ma è veramente così?
Procediamo con ordine e parliamo della
lettera del NEJM. Di questa lettera, in realtà, se ne era già parlato più di un mese fa,
anche sul nostro giornale. È infatti la stessa lettera pubblicata per la prima volta il 30 gennaio dalla rivista americana, dove si parlava di alcuni pazienti tedeschi che avevano contratto la malattia da una collega di Shanghai in visita a Monaco tra il 19 e il 22 gennaio.
Da questi casi gli autori avevano dedotto la possibilità che il virus si potesse diffondere da pazienti asintomatici, o meglio pre-sintomatici, perché poi la donna, durante il volo di ritorno in Cina e una volta rientrata, aveva iniziato a manifestare chiari sintomi influenzali ed era risultata positiva al coronavirus il 26 gennaio. Questa stessa lettera veniva però fortemente messa in dubbio, poco dopo la pubblicazione, dall’Agenzia di sanità pubblica del governo tedesco, la quale aveva accertato che la donna, mentre era a Monaco, si sentiva già allora stanca e soffriva di dolori muscolari per i quali aveva assunto paracetamolo. La stessa lettera riappare poi sul NEJM ieri (5 marzo), semplicemente, come ci ha spiegato via mail uno dei medici tedeschi firmatari,
Camilla Rothe, perché ne è stata pubblicata la versione apparsa sull'edizione cartacea del NEJM datata per l'appunto al 5 marzo. Ma le due lettere sono identiche persistendo quindi inalterati tutti i dubbi espressi allora dall'Agenzia di sanità pubblica tedesca.
Quindi nessuna novità rispetto a quanto scritto un mese fa: alcuni medici tedeschi sulla base di loro valutazioni esperenziali deducono la possibilità di trasmissione asintomatica e la loro autorià sanitaria di riferimento ne mette però in dubbio se non altro il metodo attraverso il quale sarebbero arrivati a quella ipotesi.
Ma ieri la confusione mediatica non si è limitata a questo. Non è ben chiaro il perché, molti media italiani, oltre a risollevare il caso della letttera controversa gli hanno accostato un’analisi filogenetica del virus (che con quella lettera non ha nulla a che fare), per affermare che gli “untori” di Europa non siamo noi, ma i tedeschi. Anche in questo caso vale la pena chiedersi se, a parte lo stigma esasperato che sempre si cela dietro il termine untore, le cose stiano effettivamente così.
Per capirlo dobbiamo partire
dall’analisi filogenetica in questione, pubblicata sul sito di Nextstrain, un progetto open source che studia e mette a disposizione i dati sul genoma e le mutazioni dei patogeni con l’obiettivo di “facilitare la comprensione epidemiologica e migliorare la risposta alle epidemie”, non certo per consentirci di andare a caccia di streghe o di untori.
I ricercatori hanno analizzato la sequenza genetica del virus nei vari paesi, per ricostruirne la storia di diffusione sulla base delle mutazioni genetiche. Hanno osservato che il virus italiano, o meglio, la sequenza lombarda, è molto simile, e quindi correlato a quello che si è diffuso in Messico, Germania, Brasile e Finlandia, probabilmente proprio a partire dall’Italia (
vedi immagine di seguito).
C’è poi una sequenza tipicamente tedesca (in basso nell’albero filogenetico, si chiama BavPat1/2020) che si è diffusa precedentemente in Germania, a inizio gennaio. Quindi, se l’analisi filogenetica è corretta, non si tratta dei 4 casi di cui parla la lettera del NEJM che sono emersi intorno al 20 gennaio. BavPat1/2020 deriverebbe infatti da un’introduzione del virus dalla Cina, di molto precedente all’epidemia, scrivono i ricercatori di Nextstrain, e somiglierebbe molto ai virus della sequenza lombarda e questo, secondo gli stessi ricercatori, può voler dire due cose: o è avvenuta una diffusione il cui percorso però non è stato identificato, a partire da questo virus tedesco, oppure in Europa ci sono state diverse introduzioni, separate, del virus.
L'équipe di Nextstrain ha poi osservato che le due sequenze romane del coronavirus (diverse da quella lombarda), sono correlate tra loro ed entrambe derivano da una storia di viaggi in Cina (
vedi immagine di seguito). Quindi concludono che i contagi italiani più vecchi e quelli più recenti potrebbero non essere correlati tra loro. Uno studio molto affascinante, che permette di ricostruire la storia del coronavirus dalla zoonosi iniziale fino ai casi odierni.
È un’analisi complessa, che indica come nel mondo di oggi, altamente interconnesso, non si può ragionare in termini di confini nazionali. Ripetiamo, i casi italiani non sono necessariamente tutti correlati tra loro, ma potrebbero derivare da introduzioni del virus in tempi diversi. Questo è quanto.
E tutto ciò dovrebbe ancora una volta spingere prima di tutto noi cronisti e poi chi di quanto scriviamo ne fa uso ad un atteggiamento più attento e prudente e soprattutto ad evitare un certo di tipo di messaggi che volutamente o no associano il virus a una popolazione o ad un paese, parlando di untori o pazienti "0" da additare come causa di ogni male. Ieri era la Cina e i suoi abitanti, oggi l'Italia ed ora la Germania.
Un approccio, oltre che foriero di stigma inaccetabili, è anche inutile e fuorviante: distoglie l’attenzione dalla questione principale. Si tratta di una battaglia tra uomo e virus, come ce ne sono sempre state e ce ne saranno sempre, e va affrontata con uno sforzo e una collaborazione internazionale. Tutti i dati sulla diffusione devono diventare uno strumento per bloccare l’epidemia, non per incolparci a vicenda.
Camilla de Fazio
06 marzo 2020
© Riproduzione riservata
Altri articoli in Scienza e Farmaci