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Pagare un medico "il giusto", manda in crisi il Paese?

di Fabio Florianello

13 NOV - Gentile direttore,
“Il Lavoro che vale va pagato (anche tanto)” è il titolo di un  articolo di Danilo Taino che potremmo definire controcorrente, riportato dal Corriere della Sera  di mercoledì 6 novembre. Infatti, scrive Taino,  “la questione  è seria e va al cuore di uno dei tanti problemi del  Paese”,  perché  “da un po’ di tempo  ogni volta che si viene a sapere di uno stipendio elevato, scatta l’indignazione.  Anche per cifre non eclatanti”.
 
E molte volte la protesta è davvero giustificata e gli esempi  di cui si viene a conoscenza quotidianamente   (anche di recente)  non si contano.  Soprattutto di fronte   alle  (chiamiamole)  scarse  performance o all’esiguo periodo lavorativo  che rende  ancora più   stridente   remunerazioni   e/o  buone uscite  difficilmente motivabili,  sia sotto il profilo dei contratti di lavoro, sia sotto il profilo di un’etica sociale che vorrebbe declinata  - nell’attuale periodo -  una logica di maggiore  equilibrio retributivo tra parti sociali.
E  “gli scudi si levano  - prosegue Taino -  per il solo fatto che una remunerazione è considerata da qualcuno troppo alta, senza  tener  conto della funzione, del  lavoro svolto, di chi la percepisce”.
 
Credo  siano proprio questi i  termini della questione:  funzione,  lavoro svolto e  valorizzazione professionale,   da cui non si può prescindere senza imboccare la strada di  un  appiattimento generalizzato  in un mare indistinto di professioni capace di togliere  ogni stimolo,  ogni entusiasmo, ogni  passione  al vivere quotidiano,  professionale e non.
Soprattutto  la funzione,  il lavoro e la sua valorizzazione  ben si applicano per connotare gli  aspetti peculiari di alcune professioni dove  i requisiti di chi le esercita sono particolarmente elevati e raggiunti dopo un lungo percorso di preparazione, esperienza,  sacrificio e quindi non facilmente  confrontabili.  Dove l’onerosità  dei compiti affidati è di particolare  levatura,  dove il valore di mercato sovranazionale dell’incarico può essere altissimo. Dove i risultati richiesti  necessitano  di straordinaria applicazione.  Dove la posta in gioco, ad esempio, ha a che fare direttamente con la vita delle persone.
 
E  a questo proposito  l’immaginario collettivo fa immediato  riferimento  alle classiche  professioni  che comportano una particolare qualità del lavoro svolto, con particolari rischi, particolari responsabilità nei confronti degli altri  e  a cui dovrebbe naturalmente corrispondere  un  diverso riconoscimento,  una giusta valorizzazione,  un’ adeguata   remunerazione.
Su questa base premiare l’attribuzione  di compiti speciali  quali  quelli assunti dal  pilota di aerei, dal  comandante di una nave, dal  giudice,  dal  chirurgo,  per citarne alcuni,   non può e non deve destare  demagogiche levate di scudi o indignazione ingiustificata,  da cui deriva  una generale e  diffusa ipovalutazione (per non dire disprezzo)  del lavoro e delle funzioni svolte.  Magari per il semplice  riferimento a squallidi esempi recenti.
 
Ma la questione si aggrava quando, non solo la levata di scudi  si dimostra  demagogicamente  contraria a dare  il giusto  riconoscimento “al lavoro che vale”,  ma viene a determinare persino la negazione del lavoro svolto,  della sua diversità e dei diritti che ne comporta.      
 
Abbiamo citato il caso del chirurgo come esempio di professione peculiare a cui per lo più non corrisponde, nella realtà di casa nostra, il riconoscimento del ruolo per i lunghi studi e preparazione, per il training incessante,  per lo stress psichico e  fisico che si coniuga in una miscela usurante, per l’assunzione di responsabilità,  per gli  obblighi di un aggiornamento continuo,  per la  necessità  di una dispendiosissima copertura assicurativa.
 
Ma l’esempio si applica a tutte le professioni sanitarie mediche e non mediche in generale, non solo prive del riconoscimento in termini commisurati alla delicatezza del compito, ma sottoposte ad  una quotidiana mortificazione e svalorizzazione  del ruolo sociale  nella svalutazione delle responsabilità,  nel  moltiplicarsi dei contenziosi legali, nella cancellazione dei contratti, della progressione stipendiale, addirittura nell’arretramento economico  in quella artificiosa  assimilazione ad una Pubblica Amministrazione con la quale nulla è in comune a partire dall’impegno in una turnistica a dir poco diversa: 7/7 giorni, 24/24 ore,  365 giorni all’anno.
E non sono questi i lavori che valgono? Non è la sanità un compito delicato? La tutela della salute non giustifica un riconoscimento diverso? Il valore sociale della funzione non necessita di  una valorizzazione economica adeguata, senza suscitare  reazioni indignate?
 
Purtroppo da troppo tempo nei confronti di  chi lavora in sanità, al di fuori dei sondaggi e delle classifiche  che sottolineano qualità ed  indice di  gradimento,  non solo non vi è riconoscimento per il  lavoro svolto,  ma addirittura viene ormai costantemente praticata  la negazione  della più elementare delle valorizzazioni e  dei diritti. Quasi che la cura ed il prendersi cura delle persone possa essere assimilato ad un qualsiasi altro incarico professionale nei cui confronti crisi economica e scarsità di risorse giustificano ogni tipo di ridimensionamento. Ignorando graduazione di compiti, delicatezza di procedure, profusione di impegno e soprattutto   tutela della salute.  Altro che tenere nel giusto conto funzione e lavoro svolto.
Come se l’ideologia dell’egualitarismo professionale e del tutti più poveri   aiutasse l’Italia - per dirla con Taino - ad uscire dai guai.
 
Fabio Florianello
Segretario Amministrativo ANAAO
Regione Lombardia

13 novembre 2013
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