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Quei suicidi in carcere, sempre più dimenticati

di Gemma Brandi e Mario Iannucci

19 FEB - Gentile Direttore,
il secondo suicidio del 2018 nella Casa Circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto è indispensabile che susciti qualche riflessione. Occorre, prima di tutto, partire dai dati. Crediamo che siano attendibili quelli riportati nei giorni su Il Dubbio. Nell’ottobre 2017, dunque, nell’ottavo reparto dell’istituto, quello psichiatrico, risultavano ristrette 60 persone, di cui 45 minorati psichici e 15 ex art. 148cp (con infermità psichica sopravvenuta al condannato). A questi si aggiungevano due persone con misura di sicurezza definitiva e una persona con misura di sicurezza provvisoria in attesa di posto nelle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive.
 
Vale forse la pena illustrare brevemente la storia di questo istituto penitenziario. Fino a pochi mesi addietro l’istituto di Barcellona era un Opg. L’ultimo internato è stato trasferito in una Rems nel maggio del 2017: Barcellona è stato quindi l’ultimo Opg a chiudere definitivamente i battenti. Eppure le immagini diffuse dalla Commissione Marino[1], relative a quell’Opg, erano fra le più impressionanti e non meraviglia che siano state fra quelle che indussero l’allora Presidente della Repubblica a definire gli Opg un “orrore indegno di un Paese appena civile”.
 
L’istituto penitenziario di Barcellona dunque, fino al maggio 2017, sembra essere stato in istituto “misto”, un po’ di internamento e un po’ di detenzione, perché forse la sua trasformazione da Opg in Casa Circondariale era iniziata prima dell’uscita dell’ultimo internato. In ogni caso al 30/11/2017, secondo i dati del DAP[2], risultavano reclusi nella Cc di Barcellona 203 uomini e 9 donne. Dalla “scheda trasparenza” del Ministero della Giustizia, aggiornata al 28/09/2017[3], apprendiamo che nella Cc di Barcellona la Aasl “non ha ancora attuato il passaggio dell’assistenza sanitaria penitenziaria al Servizio sanitario nazionale”. Questo meraviglia, visto che in Sicilia, come in ogni altra regione, il servizio sanitario avrebbe dovuto attuare quel passaggio subito dopo il Dpcm del 1° aprile 2008 (2008!). Ignoriamo come stiano ad oggi le cose.
 
Ma torniamo alla Cc di Barcellona, che ospita un “reparto psichiatrico” di ben 60 persone. L’istituto penitenziario allora, a guardare bene, potremmo dire che si è trasformato da un Opg (che doveva essere diretto, a norma di Ordinamento Penitenziario, da un medico) a un carcere-Opg, o piuttosto, per essere politically correct, a un carcere-Rems. Una trasformazione camaleontica che odora di vetusto.
 
Anzi, no: odora di avvenire, visto che una trasformazione analoga, del carcere in Opg-Rems, è prevista nelle recentissime norme di modifica dell’Ordinamento Penitenziario che l’Esecutivo potrebbe approvare da un giorno all’altro. Una trasformazione che è stata sapientemente costruita, negli anni, da coloro che intendono abolire il “doppio binario” restituendo ai rei folli il “diritto alla pena”. Ci sarebbe di che andare nei matti. Ma la schiera di coloro che hanno architettato questo piano umanitario e civile non solo è molto folta, è addirittura maggioritaria e potente. Tanto potente da riuscire a mettere a tacere, in un modo o in un altro, tutti coloro che si oppongono, a partire dalle loro specifiche competenze cliniche, a un disegno così poco umano e civile.
 
Ecco perché vale la pena parlare un po’ di Leone Ginzburg. Non ne parliamo, però, soltanto perché è morto in carcere, a Regina Coeli, il 5 febbraio 1944, ucciso dai nazisti. Ci piace invece rendere omaggio a questo personaggio eroico e quasi unico (solo lui e altri tredici docenti non prestarono il giuramento di fedeltà al liberticida regime fascista; fu uno dei pochi appartenenti alla Resistenza a non volere espatriare quando avrebbe potuto), perché resta un esempio fulgido di un pensiero luminoso che non può essere coartato e che si interrompe solo con la morte dell’uomo. Ci piace rendergli omaggio (e auspichiamo che lo faccia anche il sindaco di Roma, intitolandogli una strada della città, o quello di Torino, dove Ginzburg studiò al Liceo D’Azeglio) perché “i Ginzburg”, in questa epoca di assuefazione o coartazione alle logiche prevalenti, in questo sistema istituzionale dove si esige un asservimento, “i Ginzburg” sono ormai rarissimi.
 
Non sappiamo esattamente perché Ilaria Cucchi, che stimiamo e ammiriamo per la forza con cui ha portato avanti una battaglia per la verità e la trasparenza sulla morte di suo fratello Stefano, abbia inviato un messaggio, indirizzato al Presidente del Consiglio, nel quale ha dichiarato: “Probabilmente, se […la] riforma [dell’Ordinamento Penitenziario che il Governo potrebbe approvare a giorni con un Dl] fosse stata in vigore, mio fratello Stefano sarebbe ancora con noi”[4]. Nutriamo qualche dubbio circa questa opinione. Non è semplicemente invitando i sanitari che operano in carcere a comportarsi da veri sanitari, con quella rettezza morale e quella indipendenza del giudizio clinico che è parte integrante del loro mandato professionale, che eviteremo che questi sanitari si pieghino a logiche istituzionali aberranti. Non eviteremo le loro omissioni semplicemente dicendogli che possono anche usare delle immagini fotografiche da allegare ai loro certificati.
 
La nostra lunga esperienza penitenziaria ci dice che i “Mengele”, anche se ben nascosti, possono abitare l’istituzione della pena. Forse proprio perché, in carcere e fuori, sono assai rari i “Ginzburg”. Saremmo magari un po’ più tutelati se garantissimo a tutto il personale sanitario, in carcere e fuori, una maggiore dignità, un maggiore rispetto delle funzioni, una maggiore autonomia. In carcere e fuori del carcere. Leone Ginzburg è morto a Regina Coeli (dove fra l’altro nel 2017 si sono registrati due suicidi, uno dei quali di un giovane che si sarebbe dovuto ricoverare in una Rems). Stefano Cucchi è morto in un ospedale civile, anche se in un “reparto penitenziario” di un ospedale che, guarda caso, è intitolato proprio a Sandro Pertini, uno che il carcere e il confino, come Leone Ginzburg, li aveva patiti per difendere la libertà di pensiero.

Rinchiudiamo la cura dei pazienti all’interno del carcere, specie dei pazienti più fragili e indifesi come sono i malati mentali e i tossicodipendenti, creiamo per loro dei “reparti per detenuti con infermità” (Barcellona Pozzo di Gotto docet) esponendo i pazienti e gli operatori (unicamente sanitari, mi raccomando: come se questa fosse una garanzia!) a condizioni insostenibili, e cerchiamo di immaginare quello che potrebbe accadere.
 
Gemma Brandi Mario Iannucci 
Psichiatri psicoanalisti

[1] https://www.youtube.com/watch?v=JCi_h1oWXhI

[2] https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=1_5_36&contentId=SST67921&previsiousPage=mg_1_14

[3] https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_data_view.wp?liveUid=2014DAPCARD&Nome=UFF56798

[4] Citata da Stella V., Quei trattamenti inumani denunciati anche da Napolitano, ne Il Dubbio, 14/02/2018. http://www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/quei-trattamenti-inumani-denunciati-anche-da-napolitano

19 febbraio 2018
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