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Si riaprano le visite dei parenti ai malati in ospedale

02 OTT - Gentile Direttore,
la gestione della pandemia ha profondamente inciso sulle relazioni di cura ed ha comportato limitazioni dei diritti e delle libertà. Si è trattato di un periodo eccezionale non del tutto superato in quanto si profila un prolungamento dello stato di emergenza. Tuttavia pur in questo scenario l’obiettivo cui tendere, deve essere quello di rendere compatibile un’efficace azione di prevenzione, diagnosi e cura del Covid-19 con il pieno esercizio dei diritti e dei doveri.
 
Il diritto alla salute, basato sul consenso informato, non può essere scisso da quello di preservare le relazioni affettive significative nei momenti di sofferenza. Le visite dei parenti devono riprendere in quanto l’accompagnamento alla nascita, alla vita, alla malattia e alla morte devono avvenire nelle relazioni.
 
L’isolamento e la solitudine in questi passaggi cruciali possono essere a loro volta fonte di grandissima sofferenza e di decadimento funzionale dell’organismo. Tenendo conto del Covid, occorre ricreare condizioni di partecipazione, di presenza competente, utile alla persona che soffre, ai congiunti e al personale sanitario.
 
Le chiusure e le limitazioni per affrontare il pericolo infettivo non devono riaprire la strada dell’esclusione, della spersonalizzazione e dell’anomia.
Pensare i servizi sanitari come luoghi “a parte” deforma profondamente le relazioni di cura. Il prendersi cura dell’altro e quindi di sé stessi, implica non solo interventi sanitari, ma anche di altra e forse ben più complessa natura: educativi, filosofici, psicologici, sociali, culturali, religiosi.
 
Umanizzare le cure consiste nel ridare alla sofferenza, e anche alla morte, alla sua preparazione come atto di vita, la necessaria vitalità e umanità. Significa farla uscire dalla solitudine, da un vissuto di abbandono non certo attenuato dalla presenza sensibile del solo personale sanitario.
Le protezioni antivirus e la formazione per il loro corretto uso devono esseredisponibiliper tutti i cittadini che possano avere titolo nel prendersi cura della persona sofferente. Se è necessario occorre ripensare percorsi e gli spazi, fare psicoeducazione ed educare alla gestione del rischio, in ospedale o nelle residenze.
 
La pandemia può portare a più attenzione a quelle fragilità che nelle condizioni di sofferenza si amplificano, specie nell’anziano e nelle persone vulnerabili.
 
Ritrovare tutte le forme della partecipazione, della condivisione vuol dire anche lavorare perché le relazioni si arricchiscano di nuove opportunità e di nuove tecnologie comunicative. Tuttavia l’incontro umano, in presenza, lo sguardo e la espressione dei volti, la sintonia che si trasmette, non possono essere sostituiti da nulla. L’attaccamento è presenza che diventa vissuto interiore, di sicurezza proprio di fronte al pericolo. C’è bisogno di vicinanza e parole che possano esprimerla, di contatti sicuri e con-tatto fatti di condivisione e non di divisione, con alto valore etico e pietas.
 
Quindi, oltre all’aspetto tecnico, è il valore sociale (e politico) del lavoro di cura ad avere rilevanza e questo va dalla relazione professionale fino alla responsabilità del singolo e del suo contesto di riferimento. Trovare una chiave unitaria, una visione che colleghi queste dimensioni, è alla base della risposta al virus che va sconfitto non solo in ospedale ma nella comunità con l’apporto responsabile di tutti, ma proprio tutti.
 
Pietro Pellegrini 
Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma

 

02 ottobre 2020
© Riproduzione riservata

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