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Il decreto appropriatezza e il pozzo di disperazione che “inghiotte” pazienti e operatori

di Francesco Medici

Il decreto sulla un’appropriatezza è la goccia che fa traboccare il vaso, anzi il pozzo. Una sola goccia in più nel pozzo della disperazione di chi oggi lavora in prima linea crea danni inimmaginabili. Provvedimenti tanto assurdi da sembrare irreali. Fiino a quando, così come è successo con il taglio dei posti letto, non cominceranno a dare i loro effetti nefasti e lì, e solo in quel momento, ci rassegneremo e sapremo con certezza che al pozzo non vi è mai fine.

05 OTT - Questa notte ho assistito, anzi non ho assistito 50 malati in attesa di ricovero. Oltre a loro ho dovuto assistere metà dei codici rossi e gialli che si sono presentati in Pronto Soccorso, che poi, in ultima analisi, è il mio vero mestiere. Questa mattina ho abbandonato i locali del pronto soccorso alla ricerca di una doccia nelle speranza che potesse lavarmi di dosso gli odori, gli umori e la frustrazione di una notte dove so di essere riuscito a fare poco.
 
Uscendo sono passato nel corridoio dei barellati , un corridoio lunghissimo creato per far comunicare luoghi e non certo per assistere i pazienti. Il corridoio è lunghissimo, taglia l’ospedale permettendo di far comunicare p.s., sale operatorie, radiologia, di per se è lungo ma questa mattina, abitato da ambo i lati da poveri disgraziati in attesa di ricovero sembrava infinito, senza fondo: un pozzo. Immaginate che ogni barella è lunga 2,3 metri che tra una barella e l’altra c’è un cantuccio dove normalmente soggiorna accucciato o seduto un parente o una flebo o una valigia ed arriviamo a 3 metri moltiplicato per 50 (il numero dei barellati), arriviamo a 150 metri: un pozzo lungo 150 metri appare profondissimo, senza fine, un grattacielo inverso che invece di toccare il cielo, le nuvole, il sole si addentra nelle buie viscere della terra.
 
Si, io lavoro in un pozzo. Quando si cade in un pozzo si sa che si hanno scarse possibilità di uscirne. Ogni volta che penso alla caduta in un pozzo mi ricordo lo psicodramma di “Vermicino”, io era tra quelli incollati alla tv a fare il tifo per il miracolo, che, come in tutti i pozzi che si rispettino, non ci fu.
Immagino la sensazione di chi precipita in un pozzo. Cosa pensa? Avrà fine, arriverò all’acqua. Ecco oggi so che il nostro pozzo non ha fine, non troveremo mai l’acqua, alla fine dei corridoi, so che se ne apre un altro e poi un altro ancora (i corridoio del San Camillo non hanno fine). Allora sapendo che è impossibile risalire il pozzo che non ha fine non rimane che pensare che magari alla fine, aperti tutti i corridoi, la luce ci sarà nell’altro emisfero, magari nel nostro caso a via Portuense? L’uomo vive di speranze non può rassegnarsi all’indeterminato. Il nostro lavoro ci porta a dover poter credere che possiamo farcela. Ma intanto gli effetti del pozzo si fanno sentire. Ieri il caldo umido ti soffocava portandoti vicino alle sofferenze di chi in quel pozzo oramai abita, su una barella, da 8, 9 giorni. Sappiamo che per un certo numero di loro l’uscita dal pozzo sarà possibile, una lettiga, se sopravvivono, li porterà lontano negli agognati reparti pieni di sole, ma per chi lavora li no, la barella vuota sarà occupata nuovamente ed il pozzo continuerà a vivere, a esistere a crescere.

Ci si adatta a vivere nel pozzo, chi ha la fortuna di lavorare al sole (i colleghi dei reparti) fa lunghi giri per evitare i corridoi dell’ignominia, di vedere, di cascarci dentro: si ha sempre paura di venire risucchiati nel pozzo. Lo ignorano, ed una cosa ignorata non esiste. Il pozzo è buio, nascosto invisibile, è si la sorgente di malati dei campi (i reparti) al sole, ma solo quella. Il pozzo fa paura.
 
Chi vi lavora si adegua e come in tutti in posti stretti e bui ci si scanna, si abbrutisce. Polemiche tra colleghi sono la regola, al buio, stretti si sgomita e sgomitando ci si colpisce inizialmente involontariamente poi coscientemente. Ci si prepara ad una battaglia ad una guerra, ad ottenere il posto nel pozzo meno angusto, più vicino al sole. L’uomo è così, quando vede che tutto è perduto perde fiducia in tutto e cerca solo la propria sopravvivenza dimenticando che invece nelle situazioni difficili solo uniti si vince. Ma tutti i tentativi sono stati fatti, costruire il pozzo infondo è opera di anni, cercare di uscirne pure ed il risultato e deludentemente sotto gli occhi di tutti, ed allora non si crede più in niente, vince l’egoismo vince il vano tentativo alla sopravvivenza personale.
 
La rabbia di chi questa situazione la vive non solo da medico ma anche da sindacalista è che si è visti più degli altri quali i corresponsabili dello sfacelo. Da noi si attendono risposte e soluzioni. La frustrazione nasce dalla consapevolezza che oggi soluzioni non ve ne sono. Avere previsto per legge che per i malati acuti bastano 3.7 posti letto per mille abitanti, meno che in tutto il resto di Europa, mi dà la certezza che i posti letto non bastano e che le persone dovranno ora ed in futuro sostare nelle barelle in attesa del sole. Domani, se non cambiano la legge, troveremo ulteriori soluzioni di maquillage, allargheremo i corridoi, magari coloreremo i muri ma i pazienti sempre in barella rimarranno.

Dalla Politica aspettavamo risposte, riapertura di posti letto, assunzione di personale precario. E le risposte sono arrivate, ma non quelle attese. Oggi in attesa delle opere murarie la politica, lontana da investire soldi in sanità, prova l’ultima carta, anzi la solita carta, quella di ribaltare le responsabilità sui medici. I soldi sono sufficienti e garantirebbero cure e degenze adeguate, ma i medici, alcuni non tutti ben inteso, devono evitare le iperprescrizioni, gli eccessi di ricoveri, la medicina difensiva. Il ragionamento è logico, se si prescrive di meno, se si fanno meno indagini le degenze possono essere più brevi ed i posti letto possono essere utilizzati al meglio. Se si evita di ricoverare ribaltando la palla sul territorio e sulle poche indagini ritenute da professoroni universitari del Consiglio superiore di sanità “non appropriate” la richiesta e la necessità di posto letto diminuisce.
 
Sarebbe un ragionamento anche convincente, che fa presa sul pubblico televisivo, inoppugnabile e vero in tante zone della pubblica amministrazione, ma è vero anche in sanità? Mi direte: ma tra le prescrizioni ritenute non appropriate non vi sono quelle salva vita. Vero. Adesso non vi sono, ma una volta tracciata la strada a quell’elenco ne seguirà un altro e poi un altro ancora… la strada è quella. Il problema è uno solo e nessuno sembra in grado di farlo capire: la strada che porta ad una diagnosi non sempre è lineare, non sempre entra nei protocolli. Se bastassero i protocolli l’azione del medico non servirebbe più. Non che i protocolli non servano, anzi servono e servono tanto ma un paziente può rientrare in più protocolli, la sua condizioni possono necessitare di più tempo per determinare la vera malattia o l’avvenuta guarigione. Il medico e solo il medico sa cosa e come deve comportarsi per quel singolo malato in quel singolo momento in quel luogo.
 
Non si possono avere sulla testa contemporaneamente la scure delle sanzioni sulla possibile iperprescrizione diagnostica e quella al contempo delle denuncia se la prescrizione non fatta a termini di legge poi ha portato danno al paziente con relativa denuncia al medico. Sapete cosa avverrà, che non potendo fare determinati indagini al medico non rimane che la sola via della osservazione clinica, ovvero del ricovero, al primo sintomo vero si entra nel protocollo e si effettua l’indagine, ma questo allunga i tempi, allunga i ricoveri, allunga il tempo di diagnosi, allunga il tunnel. Lo Stato non deve scaricare la legittima necessità di risparmi sulle responsabilità dei medici. Se ritiene alcune prestazioni inadeguate le deve togliere dai Lea, deve togliere dalla possibilità di prescrizione a carico del Ssn. 
 
Deve essere il Ministro della Sanità a dire al cittadino: “Non possiamo garantire questa prescrizione, se hai i soldi pagatela”. Così come lo Stato già oggi fa con i farmaci di fascia C o per quasi tutte le cure odontoiatriche. Non si può dire al medico decidi tu ma se sbagli a prescrivere paghi tu (sanzione) . E’ vile. In un processo diagnostico, ovvero nel cammino verso la giusta diagnosi i fattori sono tanti.
 
Obietteranno: esiste l’iperprescrizione, esistono esami inutili? Sì. E vanno corretti varando leggi che tolgano al medico la paura della denuncia, creando momenti obbligatori di formazione, responsabilizzando la politica nel dire cosa il nostro Ssn può permettersi e cosa no, cosa il medico ed in quali occasioni può prescrivere sul ricettario rosa a carico del Ssn e cosa su quello bianco facendo decidere a quel malato se spendere o meno i propri soldi. Il processo deve essere un processo condiviso e se un medico continua a fare di testa sua, o peggio prescrive per personale convenienza, esistono già oggi metodi sanzionatori e di verifica sia professionali che ordinistici.
 
Ma in fondo al pozzo anche questi discorsi appaiono lontani ed inutili, un teatrino. Appaiono provvedimenti lontani e tanto assurdi da sembrare irreali: echi, nel pozzo le notizie arrivano distorte. Echi che portano notizie distorte e non vere, fino quando, così come è successo con il taglio dei posti letto, non cominceranno a dare i loro effetti nefasti e lì, e solo in quel momento, ci accorgeremo che non erano echi ma tristi e subdole realtà, ci rassegneremo e sapremo con certezza che al pozzo non vi è mai fine.
 
Francesco Medici
DEA - Pronto soccorso Ospedale San Camillo Forlanini di Roma
Consigliere Nazionale Anaao Assomed 


05 ottobre 2015
© Riproduzione riservata

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