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Bianco (Fnomceo): “Ridiscutere l’aziendalismo, per non consumare il Servizio sanitario”

di Eva Antoniotti

Amedeo Bianco si candida per la terza volta alla guida della Fnomceo e traccia il piano di lavoro per i prossimi tre anni. L’emergenza è intervenire su responsabilità civile e assicurazioni, ma occorre anche ripensare il modello aziendalista del Ssn e aprire un laboratorio multidisciplinare sul futuro dei medici e della medicina.

09 MAR - Amedeo Bianco ha sciolto la riserva quasi un mese fa: nelle elezioni che si terranno a fine marzo, si candiderà per la terza volta alla guida della Fnomceo. E il programma di lavori è intenso: definire la riforma dell’Ordine, intervenire sul nodo caldo della responsabilità civile del medico e dell’assicurazione obbligatoria, addirittura aprire un laboratorio di idee multidisciplinare per definire il “nuovo medico” e la “nuova sanità”. E ridiscutere “pacatamente” dell’aziendalismo in sanità, perché non basta rivederlo col governo clinico.
 
Presidente Bianco, si prepara ad un nuovo mandato alla guida della Fnomceo. Qual è il suo programma?
Mi piacerebbe riuscire a chiudere i cantieri che abbiamo aperto in questi anni. E innanzi tutto vorrei portare avanti e veder realizzare, finalmente, il provvedimento legislativo sul riordino dei nostri Ordini professionali. Ci lavoriamo da anni e non si tratta di una atto burocratico, ma di un intervento assolutamente necessario, con una duplice valenza: da una parte occorre ammodernare gli Ordini sul piano organizzativo, amministrativo, e nelle forme della rappresentatività e rappresentanze rispetto alle quali diventa cruciale un diverso sistema elettorale; dall’altra riqualificarli nei contenuti della loro funzione di rappresentanza esponenziale di tutta professionale, individuando gli ambiti entro i quali questa si concretizza.
 
E in quali ambiti, secondo lei, gli Ordini possono intervenire?
Il più importante e senza dubbio quello della qualità professionale, nel senso più ampio. Occuparsi di qualità professionale vuol dire occuparsi di formazione di base e specialistica dei professionisti e dello sviluppo nel tempo del loro patrimonio culturale e delle loro competenze. Credo che questo rientri pienamente nei compiti di tutela generale che ha l’Ordine, perché un professionista di qualità è indubbiamente un elemento di forte garanzia e questo è nell’interesse pubblico.
 
In che modo potete vigilare sulla qualità della formazione?
Non è un impegno da poco, perché questo vuol dire interloquire con il sistema formativo, aprendolo ad un confronto tra formazione e professione, che non necessariamente coincidono. E in questo occorre tenere presenti le criticità del sistema universitario, aggravate dalla restrizione delle risorse disponibili, sollecitandolo a rivedere i suoi obiettivi in termini di quantità, attraverso una programmazione che eviti il ricostituirsi di evitare nuove “gobbe” generazionali e previdenziali, ma ha anche di qualità della formazione, perché la medicina, come scienza biotecnologica, cambia rapidamente, così come la sanità e la società ed è evidente che alcuni paradigmi formativi devono essere rivisti.
Altro momento importante è quello della formazione specialistica, che rappresenta un aspetto particolare delle nostre facoltà mediche, perché i medici sono gli unici ad avere un percorso lungo, gravato da costi non indifferenti, anche in ragione del fatto  che sono anche gli unici ad essere giustamente retribuiti. Credo che occorra adoperarsi perché ci sia una maggiore corrispondenza tra i bisogni sanitari espressi dalla realtà e questa formazione affinché sia davvero professionalizzante, ovvero capace di determinare conoscenze e competenze già immediatamente spendibili. Va dunque realizzato l’assunto andragogico dell’imparar facendo e realizzato l’intreccio tra sistema formativo universitario e sistema sanitario.
 
Cosa intende per “cambiare il paradigma della formazione”?
In medicina si utilizza è ancora centrale il paradigma riduzionista, che verticalizza molto i saperi e le competenze, alimentando un  “superspecialismo”. Se questo per un versante risponde all’esigenza di governo e di utilizzo dell’enorme complessità dei saperi, dall’altro i rapidi cambiamenti degli stessi saperi e della domanda di salute pongono invece l’esigenza di una maggiore flessibilità, che renda possibile anche una “riconversione” dei professionisti, perché in una vita lavorativa che dura ormai oltre 40 anni si deve mettere in conto di dover affrontare grandi cambiamenti. Basti pensare, sul piano meramente tecnico, ai tumultuosi cambiamenti delle tecnologie e sul piano epidemiologico più generale l’incombere delle patologie croniche invalidanti, che chiedono un ridisegno delle competenze e delle organizzazioni sanitarie.
 
E questo fa pensare alla formazione continua, all’Ecm…
La formazione continua può giocare un ruolo fondamentale in questo processo, come un sotto sistema di formazione che sia coassiale al sistema delle cure. E il sistema Ecm, pur con tutti i suoi limiti, è un modello molto avanzato, da valorizzare come elemento caratterizzante del nostro sistema sanitario. Sono convinto che il grande merito dell’Ecm stia nell’aver costruito una cultura dell’aggiornamento delle conoscenze e delle competenze come strumento fondamentale nel rimodellamento delle organizzazioni e della qualità delle cure. Da solo non basterà, ma intanto ha avviato questo processo e lo ha fatto con pochi mezzi: ovunque la formazione è considerata un capitolo di sviluppo su cui investire, mentre noi abbiamo affrontato questa partita con scarse risorse e dobbiamo lottare per non finire in ginocchio.
 
Pensa ad una maggiore valorizzazione dell’Ecm?
Credo che l’Ecm sia uno degli strumenti che prima o poi dovrà portarci alla certificazione di qualità dei professionisti, un passaggio necessario nella consapevolezza che per migliorare occorre valutare e misurare, secondo indicatori e standard di qualità nella logica dello sviluppo continuo professionale.
 
Nel mondo medico si sente un certo disagio professionale e spesso questo porta ad atteggiamenti di rimpianto per altri tempi, quando “il dottore” godeva di maggiore autorità. Lei cosa ne pensa?
Tutti ricordano il medico di un tempo, autorevole e a volte autoritario: nella sua valigetta c’era poco e dove non arrivava con i farmaci, doveva arrivare con le parole. Oggi sono cambiate molte cose: il diritto alla salute ha assunto una diversa rilevanza sociale, sono cresciute le organizzazioni sanitarie, è entrato in campo il “terzo pagante”. E poi, nel campo specifico delle possibilità della medicina di guarire, resta ancora significativo il gap tra le speranze e le evidenze, in mezzo al quale c’è il mare enorme della sofferenza delle persone.
Davanti a tutto questo non si tratta di prender posizione, ma di sforzarsi di capire: bisogna giocare la partita con quello che c’è, non con quello che si vorrebbe.
 
Ma il disagio medico è solo rimpianto o ha dei fondamenti?
Il disagio della professione, esposta su molti fronti, è reale e chiede risposte. Per dirne solo una: gli ospedali sono forse tra le ultime espressione del modello fordista di organizzazione del lavoro in questo Paese. E i medici ci stanno male.
 
L’ondata di liberalizzazioni non vi preoccupa?
Rispetto ad altre professioni intellettuali, noi partiamo da una realtà diversa: l’80% dei medici infatti lavora per il Ssn. Certo stiamo seguendo con attenzione questo processo, per evitare che si creino condizioni che rendano incerti i confini dell’attività professionale, mettendo in difficoltà professionisti come gli odontoiatri, che hanno garantito un settore sul quale la sanità pubblica ha deciso di non intervenire e che lo hanno fatto benissimo, offrendo livelli di qualità ai vertici d’Europa.
 
Lei ha annunciato la volontà di elaborare un Manifesto per un nuovo medico e una nuova medicina. Di cosa si tratta?
Ci siamo resi conto che il tema della moderna sanità, della moderna medicina, del nuovo medico non può essere un affare tecnico, interno, perché questo è un terreno dove intervengono anche altre visioni della società e dell’uomo. La difficoltà sta proprio nel tener conto di tutti questi complessi intrecci, perché la malattia, come dicono i sociologi, è un oggetto mobile che sfugge a definizioni univoche, definita contemporaneamente da ciò che vede il medico, ciò che vede il malato e ciò che vede la società. Per questo vogliamo aprire un confronto ampio, con tanti diversi contributi da parte di economisti, sociologi, filosofi, bioeticisti, comunicatori. Ognuno potrà aiutarci a ridefinire noi stessi, il nostro lavoro e la nostra sanità, per aprire poi la partita con la politica.
 
Torniamo alle questioni in sospeso. C’è un ddl sulla responsabilità professionale fermo da tempo in Parlamento. Pensa che si arriverà ad una conclusione?
La responsabilità professionale è un tema complesso che abbraccia culture e organizzazioni e procedure e strumenti, sul quale si sta lavorando da più parti. Nell’urgenza c’è un’emergenza e cioè quella  della responsabilità civile, in ragione dell’obbligo per tutti i medici,  previsto in Finanziaria e ribadito nel decreto sulle liberalizzazioni, di avere un’assicurazione. Il paradosso è che proprio in queste settimane le assicurazioni stanno disdicendo le polizze e i costi stanno lievitando enormemente. Non è un fenomeno nuovo, è già accaduto in altri Paesi con effetti devastanti, per questo se non si interviene la situazione diventa totalmente insostenibile sul piano economico e professionale, per la sanità pubblica e quella privata. È un problema che è ben presente al ministro Balduzzi e anche alle Commissioni parlamentari che seguono la sanità, quindi mi auguro che vengano messi in campo al più presto provvedimenti incisivi ed efficaci.
 
Altra questione aperta in Parlamento è il ddl sul governo clinico. Pensa che sarà approvato?
Voglio essere chiaro. Il ddl sul governo clinico è un lavoro generoso, apprezzabile in alcuni passaggi, ma che interviene su un modello di organizzazione dei servizi sanitari che dopo vent’anni dalla riforma aziendalista mostra ormai tutte le sue criticità.
Credo che quel modello sia sostanzialmente sprofondato nel solco genetico della sua originaria mission, e cioè governare i costi di produzione controllando i fattori di produzione - tecnologie, beni e servizi, professionisti - peraltro registrando clamorosi fallimenti. Il modello si salva laddove sono stati messi sotto pesante tutela i fondamentali giuridici dell’azienda e cioè l’autonomia finanziaria, organizzativa, gestionale e patrimoniale. Non è un mistero che le aziende in pareggio sono in larghissima parte quelle inserite in sistemi regionali nei quali l’autonomia gestionale e finanziaria è del tutto ausiliaria a rigide programmazioni regionali, mentre quella finanziaria è perfettamente allineata a quella contabile dei budget assegnati, e su tutto incombe il filo doppio che lega i vertici aziendali e il management intermedio, compreso quello professionale, alle prerogative della politica.
 
Insomma, lei dice che il modello aziendalista in sanità ha fallito?
Dobbiamo prendere atto della realtà e riconoscere che in queste aziende non c’è altro, se non quello che descrivevo poco fa, e soprattutto manca quel “altro” che, con grande impegno e poco costrutto, cerca di realizzare la mitica clinical governance, ovvero quelle aree di convergenza, di valori, di ruoli, di autonomia e responsabilità dei professionisti.
Realizzare questa convergenza è indispensabile per qualificare i “prodotti” di questa “azienda”, che sono complessi e delicati servizi di tutela della salute. Ridisegnare i modelli di organizzazione e gestione, i ruoli, le responsabilità di tutti gli attori in funzione non solo della tenuta dei bilanci ma anche della qualità efficacia e appropriatezza del prodotto dovrebbe essere il fine di un’altra azienda, di un azienda speciale, di un azienda di servizi.
 
Che caratteristiche dovrebbe avere questa azienda di servizi? Meno manager e meno politica?
Siamo oltre la storica contraddizione tra manager e professionisti e non basta dire, anche se è vero, che la politica è invadente. Bisogna, responsabilmente, ricostruire uno spirito di appartenenza, fondato sulla condivisione di valori etici e civili, sulla trasparenza e efficienza nella gestione delle risorse, sulla valorizzazione professionale secondo il merito.
Ai miei tempi, quando si costruì il Ssn, c’era un forte spirito di appartenenza al servizio, oggi non c’è analogo spirito di appartenenza all’azienda. E se noi per primi non sentiamo come nostra la sanità, non possiamo pensare che la sentano tale i cittadini. Una strada pericolosa, sulla quale si rischia la consunzione del nostro Servizio sanitario nazionale.
 
Eva Antoniotti

09 marzo 2012
© Riproduzione riservata

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