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QS Edizioni - martedì 19 marzo 2024

Lavoro e Professioni

Il nuovo contratto sanità. Le tante criticità di una firma frettolosa

di Luca Benci
immagine 28 febbraio - Dopo oltre otto anni di blocco contrattuale era legittima l’aspettativa di un contratto di segno diverso. Non colpisce solo l’esiguità degli aumenti retributivi – dipendenti dalle leggi di stabilità – quanto l’introduzione di forti sistemi di flessibilità che colpiscono in particolare il personale di assistenza e dei servizi. E’ vero che rispetto alle prime bozze che circolavano e che erano piene di deroghe sull’orario di lavoro si sono fatti passi in avanti o, più correttamente, non indietro, ma le criticità della preintesa sono molte
L’ipotesi contrattuale firmata il 23 febbraio dalle maggiori sigle sindacali pone fine alla vacatio contrattuale più lunga di sempre. La firma arriva anche dopo la pronuncia di incostituzionalità del blocco contrattuale. L’ipotesi contrattuale, corposa ancorché non completa – vi saranno delle “code contrattuali” - , rappresenta dopo quasi venti anni il vero rinnovo dell’impianto contrattuale. Si tratta di circa 120 pagine di articolato. In questa sede analizzeremo solo alcuni istituti che hanno avuto sensibili cambiamenti.
 
Le carriere organizzative
In un precedente contributo avevamo affrontato la questione degli incarichi professionali e organizzativi. Il sistema delle carriere per le professioni sanitarie viene impostato attraverso un sistema di “incarichi di funzione” denominati di “organizzazione” e “professionali”.
Rispetto a quanto già scritto vediamo le modifiche rispetto alla bozza che circolava precedentemente. L’incarico di organizzazione – che veniva ipotizzato in meno complesso “di coordinamento” e più complesso “di posizione organizzativa” nella stesura definitiva diventa semplicemente “di organizzazione”.
A questo punto a sparire è la dicitura di “posizione organizzativa” mentre rimane quella di coordinamento che viene richiamata per la sua “valorizzazione”. Sembrerebbe di poter dire che l’incarico di funzione organizzativo sia unico: in realtà non è così.

Andiamo per gradi nella confusa normativa contrattuale. In primo luogo si ridefinisce l’ambito degli incarichi organizzativi che vengono conferiti per “l’assunzione di specifiche responsabilità nella gestione dei processi assistenziali e formativi connessi all'esercizio della funzione sanitaria e sociosanitaria”. Curiosamente non si riporta, in modo diretto, la funzione che in questi anni ha caratterizzato proprio i due incarichi organizzativi: la gestione del personale, che sparisce completamente dalla normativa contrattuale. Vi è da domandarsi se si sia ritenuto di cambiare geneticamente il ruolo del coordinatore e della posizione organizzativa che in questi ultimi decenni ha visto una più marcata caratterizzazione della gestione delle risorse umane, oppure sia stato solo uno strafalcione della normativa contrattuale dovuto alla evidente fretta di chiudere prima della scadenza elettorale.
 
Il contratto del 2001 che aveva istituito la funzione di coordinamento – uno, quindi, degli attuali incarichi di organizzazione – prevedeva espressamente la gestione del “personale appartenente allo stesso o ad altro profilo anche di pari categoria”. Anche il contratto del 1999, istituendo precedentemente le posizioni organizzative, le graduava in relazione alla “entità delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche e strumentali direttamente gestite.
Dall’ipotesi contrattuale del 2018 sparisce totalmente il diretto riferimento alla gestione del personale.
Propenderemmo per l’ipotesi che sia stato un mero strafalcione normativo – come vedremo non l’unico - altrimenti sarebbe un sovvertimento involontario (?) dell’intero impianto delle figure di organizzazione.

Le criticità non si fermano qui. L’incarico di organizzazione, specifica il secondo comma dell’articolo 16 “deve essere graduato secondo i criteri di complessità definiti dalla regolamentazione di ogni singola Azienda o Ente”. In questa graduazione viene fatta salva la
“la funzione di coordinamento prevista dalla Legge n. 43 del 2006” che viene “confermata e valorizzata all’interno della graduazione dell’incarico di organizzazione, anche in relazione all’evoluzione dei processi e modelli organizzativi ed all’esperienza e professionalità acquisite”.
 
Si comprende che vi sono altri incarichi “di maggiore complessità” solo in relazione alla diversa necessità dei requisiti di studio e anzianità.
Per concorrere alla funzione di coordinamento, infatti, è necessario il master in coordinamento o management. Il contratto ha modo di sottolineare che il master è necessario per la “sola” funzione di coordinamento di cui, per altro, non si indicano limiti di complessità.
Per accedere invece a “incarichi di maggiore complessità” il contratto indica il solo necessario requisito dell’anzianità di servizio di cinque anni e l’eventuale laurea specialistica/magistrale come “elemento di valorizzazione” non necessario però ai fini del conferimento dell’incarico.

L’incarico di maggiore complessità non ha un nome. Il trattamento economico viene fissato da € 1.678,48 ad un massimo di € 12.000,00 annui lordi per tredici mensilità senza distinguere tra coordinamento e ulteriori incarichi di maggiore complessità. La domanda lecita che ci si pone è: può esistere una funzione di coordinamento anche a 12000 euro? Quale è il limite attraverso il quale passare visti anche i diversi requisiti per accedervi?

In altri termini il contratto da un lato parla di generici incarichi di organizzazione, dall’altro “conferma” la funzione di coordinamento, prevede il requisito del master, non indica un limite economico a cui fare riferimento, dall’altro stabilisce che per gli “ulteriori incarichi” di maggiore complessità (si suppone le ex posizioni organizzative) non è necessario il titolo post laurea del master ma la semplice anzianità di servizio.

Di per sé è un capolavoro: è necessaria una maggior qualificazione per la minore complessità, mentre è sufficiente l’anzianità di servizio per la maggiore complessità e il possesso della “laurea magistrale specialistica” rappresenta solo “un elemento di valorizzazione ai fini dell’affidamento degli incarichi di maggiore complessità”. Nessuna obbligatorietà dunque, neanche del master in coordinamento.

A maggiori responsabilità minori requisiti richiesti. Il corto circuito contrattuale è evidente. Ricordiamo che nella normativa contrattuale del 1999 e del 2001 non era richiesto il titolo per svolgere l’incarico di coordinamento e di posizione organizzativa. Solo le modifiche intercorse con la legge 43/2006 e il successivo contratto del 2008 ne hanno sancito l’obbligatorietà. L’attuale ipotesi doveva porre fine a questa contraddizione. Non l’ha fatto.
Gli incarichi di maggiore complessità, inoltre, come abbiamo notato, non hanno più un nome e non se ne comprende il motivo.

Gli incarichi di organizzazione sono a tempo – 3 o 5 anni – e possono essere rinnovati fino a un massimo di 10 anni. Dopo tale termine vengono ribanditi senza ovviamente alcuna garanzia per il suo rinnovo, neanche in caso di valutazione positiva.
Come scriveva Norberto Bobbio in una democrazia è ammesso il segreto, ma non il mistero. Quale sia la ratio che sottintende a questa norma che costringe chi ha fatto bene il proprio lavoro – a detta dell’azienda che lo ha valutato positivamente – non è veramente comprensibile.
Gli incarichi di funzione organizzativi previsti dalla normativa contrattuale – ipotesi 2018 – sono viziati da evidenti sgrammaticature e illogicità.
 
Le carriere professionali
Gli incarichi professionali hanno una normativa in parte uguale agli incarichi organizzativi e in parte diversa. Una serie di considerazioni le avevamo già analizzate e a cui rimandiamo. Ricordiamo che viene istituito il professionista specialista – con master clinico – e il professionista esperto con percorsi regionali.

Entrambi gli incarichi verranno istituiti “per l’esercizio di compiti derivanti dalla specifica organizzazione delle funzioni delle predette aree prevista nell’organizzazione aziendale. Tali compiti sono aggiuntivi e/o maggiormente complessi e richiedono significative, elevate ed innovative competenze professionali rispetto a quelle del profilo posseduto”. A parte i dubbi che si creeranno sui limiti a cui, comunque, i compiti “aggiuntivi” dovranno sottostare e al rischio di contenzioso con la professione medica – come l’esperienza di questi anni insegna - arduo è capire la differenza tra le due figure. Il contratto, per il solo “esperto”, mescolando in un unico comma competenze e titolo, specifica che il requisito per l’incarico costituisce nell’avere “acquisito, competenze avanzate, tramite percorsi formativi complementari regionali ed attraverso l’esercizio di attività professionali riconosciute dalle stesse regioni”.

Quindi avremo uno “specialista” con formazione post base universitaria e un “esperto” con formazione post base regionale. Quest’ultima scelta viene fatta quasi in controtendenza rispetto al dibattito nazionale che chiede un ridimensionamento dei poteri delle regioni in materia di sanità, tanto che diversi partiti chiedono la riforma del titolo V della Costituzione nonostante la bocciatura da parte dell’elettorato della riforma tentata dal governo Renzi nel 2016. In questo campo siamo nel campo delle competenze concorrenti in materia di “professioni” e “tutela della salute”. Senza scomodare il consunto dibattito sui 21 sistemi regionali, vi è da domandarsi il motivo di creare disparità di esercizio professionale tra le singole regioni all’interno di un contratto collettivo nazionale di lavoro in assenza di standard di riferimento per le competenze avanzate che potranno scontare differenze tra regione e regione.

Il rischio di riconoscimenti azzardati e di competenze è evidente creando posizioni “esperte” in alcuni contesti geografici non riconosciuti come tali da altri contesti.
Un dubbio finale riguarda il “fondo”: quante posizioni professionali potranno essere riconosciute in ogni azienda vista la naturale limitatezza del fondo?

Orario di lavoro, riposi, pronta disponibilità e straordinario
Trattiamo congiuntamente una pluralità di istituti contrattuali in quanto hanno come denominatore comune una forte flessibilità rispetto al passato e che possiamo così sintetizzare:
a) viene ripristinata l’antica dicitura contrattuale della durata della prestazione lavorativa giornaliera “non superiore alle dodici ore continuative a qualsiasi titolo prestate” avallando le discutibili prassi dei turni di dodici ore consecutive che si sono affermati negli ultimi anni;

b) la pausa mensa prevista dalla legge comunitaria dopo le sei ore di lavoro (o quanto meno una pausa) viene concessa a eccezione del personale in turno, la cui prestazione può allungarsi, come abbiamo visto, alle 12 ore continuative senza pausa ristoratrice;

c) le undici ore di riposo vengono derogate per le attività di formazione e per la partecipazione alle riunioni di reparto;

d) viene elevato da quattro a sei mesi il periodo di riferimento per il calcolo della durata media di quarantotto ore settimanali dell’orario di lavoro, comprensive delle ore di lavoro straordinario;

e) viene avallata l’interpretazione della frazionabilità del riposo giornaliero delle 11 ore per il personale in pronta disponibilità. Il riposo viene quindi “sospeso” dalla chiamata e ridecorre dalla fine della prestazione lavorativa. Laddove non si riesca, nonostante la “sospensione” comunque a recuperare le residue ore mancanti “le ore di mancato riposo saranno fruite nei successivi sette giorni, fino al completamento delle undici ore di riposo”. In termini esemplificativi è lecito lavorare sette ore nel turno mattutino, da mezzanotte alle sette in pronta disponibilità e essere in servizio nel pomeriggio successivo. Tale ipotesi contrasta con la durata massima della prestazione giornaliera;

f) lo straordinario è elevabile fino a 250 ore annue e una volta richiesto dal dirigente, salvo “giustificati motivi di impedimento per esigenze personali e familiari”, “è tenuto ad effettuare il lavoro straordinario”. Viene introdotta, quindi, la fattispecie dello straordinario obbligatorio che, di fatto, si configura come un aumento surrettizio dell’orario di lavoro a più di quaranta ore settimanali riportando indietro la lancetta dell’orologio agli anni settanta dello scorso secolo.
 
Le note positive sono relative invece al riconoscimento del “tempo divisa” e “tempo consegne” che però sembrano più dettate dal riconoscimento di sentenze che non da conquiste in sede contrattuale. Anche i permessi per le visite specialistiche sono frutto di normative legislative e sentenze: trattasi nei fatti di recepimenti dovuti.

Emerge un chiaro peggioramento delle condizioni di vita e lavoro per coloro che lavorano nei reparti, con particolare riferimento a chi ha un’articolazione di lavoro all’interno delle 24 ore e a chi è soggetto alla pronta disponibilità. Le modifiche, operate in pejus, non sono neanche compensate dall’adeguamento economico delle indennità legate al disagio – notturna, festiva e pronta disponibilità – che rimangono ferme a cifre irrisorie (quella sulla pronta disponibilità ferma al 1990) ancorché suscettibili di elevazione in sede di contrattazione integrativa.

Stupisce, in particolare, l’introduzione dello straordinario obbligatorio di cui non si ha memoria, con questa ampiezza, in alcun contratto collettivo. Il lavoratore si può sottrarre solo in caso di “giustificati motivi di impedimento per esigenze personali e familiari”. Giustificare al datore di lavoro le esigenze personali e familiari sono l’ennesima deriva negativa imposta alla qualità di vita delle persone.

L’assenza di giustificazione al lavoro straordinario può essere sanzionata disciplinarmente per inosservanza alle disposizioni di servizio e, financo, per assenza ingiustificata laddove si preveda la prestazione di un intero turno di lavoro come può capitare nei reparti di degenza. Esattamente come un’inosservanza all’orario non straordinario di lavoro.
 
L’introduzione dei contratti Jobs act
Oltre ai tradizionali contratti di lavoro a tempo determinato e indeterminato vengono introdotti i nuovi contratti di “somministrazione” recepiti con i recenti decreti del c.d. Jobs act.

Si tratta di un contratto a tempo determinato - la normativa li prevede anche a tempo indeterminato, ma non sono stati recepiti dal contratto – con il quale un’agenzia di somministrazione “mette a disposizione di un utilizzatore (azienda o ente) uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell'interesse e sotto la direzione e il controllo dell'utilizzatore”.

E’ una forma di lavoro precario che non sarà mai soggetta ad alcuna forma di stabilizzazione e che può essere utilizzata entro l’ampio limite del 20% del personale a tempo indeterminato di un’azienda.

Anche in questo caso sfuggono i motivi per cui, a fronte di gravi e generalizzate carenze di personale, in tutto il Servizio sanitario nazionale si decide di evitare di assumere a tempo indeterminato e, evidentemente, non ritenendo sufficiente il contratto di lavoro a tempo determinato tradizionale, si introduce il contratto di somministrazione per un limite enorme del 20%. Siamo nell’ordine di parecchie decine di migliaia di persone che potrebbero essere assunte con queste modalità nella sanità pubblica.
 
Conclusioni
Dopo oltre otto anni di blocco contrattuale e dopo una generale complessiva diminuzione degli occupati all’interno della sanità pubblica era legittima l’aspettativa di un contratto di segno diverso.

Non colpisce solo l’esiguità degli aumenti retributivi – dipendenti dalle leggi di stabilità – quanto l’introduzione di forti sistemi di flessibilità che colpiscono in particolare il personale di assistenza e dei servizi. E’ vero che rispetto alle prime bozze che circolavano e che erano piene di deroghe sull’orario di lavoro si sono fatti passi in avanti o, più correttamente, non indietro.

Il combinato disposto orario di lavoro/straordinario/pronta disponibilità e contratti precari jobs act sembrano perseguire un un tentativo di amazonizzazione – intendendosi per tale lo sfruttamento intensivo di manodopera che caratterizza la multinazionale americana – di cui non si sentiva il bisogno.
Se il servizio sanitario nazionale ha personale insufficiente e invecchiato il contratto, quale luogo della tutela collettiva, non solo non ha dato le risposte sufficienti, ne ha bensì aggravato le condizioni lavorative.

Particolarmente colpita risulta la categoria D sanitaria dalla irrisorietà della differenza retributiva riconosciuta a fronte di cambiamenti professionali e normativi che sono intercorsi negli ultimi due decenni (l’impianto normativo contrattuale originario è del 1999/2001). Laurea come requisito di accesso, obbligatorietà di iscrizione all’albo con relativa tassa per tutti i professionisti in relazione alla recente legge 3/2018, obbligatorietà di assicurazione per responsabilità civile professionale per la rivalsa sono solo alcuni dei gravami che sono previsti per questa categoria.

Per tacere dei disposti della c.d. legge Gelli – 24/2017 - che nei primi articoli introduce l’obbligo di prevenzione dei rischi reso impossibile da un aumento degli orari di lavoro e dalla assenza di pause. Con questo strumento le aziende non sono certo state dotate di uno strumento che persegue la qualità e la sicurezza, pur in un contratto che, visto con gli occhi neutrali, risulta tutto sbilanciato sulla parte datoriale.

I contratti collettivi di lavoro firmati nell’imminenza delle elezioni politiche hanno in genere la caratteristica di essere considerati “mance e regali elettorali”. In questo caso mal si comprende la ratio della firma frettolosa prima della scadenza elettorale sia da parte politica che sindacale di un contratto deludente sul piano della proposta e qualitativamente scadente.
 
Luca Benci
Giurista 
28 febbraio 2018
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