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Giornalismo scientifico investigativo: perché ne abbiamo bisogno?

di A.Festa e M.Losi

Per la prima volta una prestigiosa rivista scientifica come il British Medical Journal ha nominato “associate editor” un non laureato in medicina. Obiettivo: quello di svolgere inchieste sul marketing farmaceutico e sulle dinamiche sottostanti allo sviluppo e all’autorizzazione in commercio dei medicinali

20 GEN - La notizia non è passata inosservata tra gli addetti ai lavori: per la prima volta, una grande rivista medica internazionale, il British Medical Journal (BMJ) ha nominato Associate Editor una persona non laureata in Medicina, incaricandolo dell’inedito compito di svolgere inchieste sulle dinamiche che sottostanno allo sviluppo, l’autorizzazione e il marketing dei medicinali. Anche in Italia, i ricercatori della Cochrane Collaboration sostengono questo progetto.
 
Dal dicembre scorso, Peter Doshi è uno dei più vicini collaboratori dell’editor-in-chief del BMJ, Fiona Godlee: sociologo di padre bengalese, madre tedesca e moglie giapponese, è felice ma non stupito del nuovo incarico: “Il BMJ ha sostenuto sin dall’inizio il lavoro che stiamo da anni portando avanti per svelare la storia della ricerca clinica che ha condotto alla approvazione degli inibitori della neuroaminidasi per il trattamento dell’influenza.
 
Che una rivista scientifica senta l’esigenza di un condirettore deputato all giornalismo d’inchiesta non deve stupire: soprattutto dopo aver letto i libri di Ben Goldacre e David Healy, che si sono aggiunti a quelli degli ex direttori di grande riviste quali il New England Journal of Medicine - Jerome Kassirer e Marcia Angell – o lo stesso BMJ – Richard Smith.” Doshi si riferisce a Bad Pharma e a Pharmageddon, quasi mille pagine che dettagliano fatti, cifre e nomi di storie poco edificanti.
 
Doshi è uno dei promotori dell’iniziativa “Restoring Invisible and Abandoned Trials” (RIAT), presentata sul BMJ stesso e sulla più importante rivista open access, PLoS Medicine. RIAT è l’ultima tappa di un percorso iniziato almeno dal 1990 con l’articolo di Iain Chalmers sul JAMA Underreporting Research Is Scientific Misconduct: non a caso, Chalmers è tra i fondatori della Cochrane Collaboration, organizzazione che in molti Paesi del mondo – ed in Italia attraverso l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane  - oggi sostiene a diversi livelli la necessità che tutti i risultati dei trial clinici siano accessibili a tutti, un’esigenza finalmente uscita dai recinti della discussione accademica per arrivare anche sulle colonne del  New York Times con l’articolo Breaking the seal of drug research. “Abbiamo dedicato a questo tema il congresso annuale della nostra Associazione – spiega il presidente Luca De Fiore – e nei prossimi mesi intendiamo mantenere viva l’attenzione su questo argomento, anche sensibilizzando le istituzioni e le società scientifiche attive nell’ambito della ricerca clinica”.
 
La richiesta di dati, spiega Doshi, risponde a due problemi fondamentali: “La mancanza dei risultati degli studi e del dettaglio dei metodi seguiti, così come la presentazione distorta di questi elementi condiziona pesantemente il percorso regolatorio dei medicinali e suscita delle domande a cui ancora nessuno ha dato risposta: perché i dati degli studi clinici non sono normalmente disponibili per analisi indipendenti dopo che un ente regolatorio ha preso una decisione? Come è stato possibile consentire alle aziende farmaceutiche di valutare i loro propri prodotti e tenere segrete grandi e sconosciute quantità di dati perfino alle agenzie responsabili dell’approvazione?” Sono queste le ragioni per cui è nata l’iniziativa RIAT, che si articola in due fasi.  Nella prima, si individua uno studio “invisibile” o “distorto”, si ottiene un report dalle agenzie regolatorie, si scrive all’azienda sponsor e si chiede di rendere trasparenti i dati o di eliminare le distorsioni, chiedendo di rispondere entro 30 giorni. Se l’azienda risponde affermativamente,  ha 1 anno di tempo per ottemperare alla richiesta di pubblicazione. Se non si ottiene risposta, viene autonomamente avviata la ricerca dei dati, per portarli alla luce e pubblicarli su una rivista “RIAT friendly”. E’ importante sottolineare che l’iniziativa ha avuto l’appoggio di molti, prestigiosi periodici scientifici.
 
Grazie alla revisione degli studi clinici sulla base dei dati completi, l’assistenza al malato non potrà che migliorare: il suo fondamento infatti sono le evidenze, che ora sono in parte condizionate dalla presentazione distorta dei dati. Si tratta di una impresa che, infine, potrebbe essere determinante per dare una nuova credibilità alla ricerca scientifica. Ne è convinto anche Tom Jefferson, medico e tra i più esperti revisori del gruppo in cui è attivo anche Doshi. “Quello che gli autori di una revisione sistematica vedono – spiega Jefferson - è solo una piccola parte rispetto a quello che non vedono: le migliaia di pagine che compongono il Clinical Study Report (CSR) che comprendono anche le cartelle cliniche, i memorandum, la corrispondenza, i documenti organizzativi e soprattutto i dati individuali di tutti i pazienti arruolati nello studio (IPD): informazioni preziosissime alle quali hanno accesso solo i regolatori e in certi casi solo i ricercatori delle aziende farmaceutiche.” Queste migliaia di pagine di informazioni devono necessariamente essere sottoposte a un grande lavoro di compressione se pensiamo che, nel caso di uno degli inibitori della neuroaminidasi, da un CSR di 8545 pagine si è giunti – 10 anni dopo la conclusione dei trial – ad un articolo di sole 7 pagine sul Journal of Antimicrobial Chemotherapy.
 
La strada appena intrapresa avrà sicuramente un forte impatto sulla Cochrane Library, il database di revisioni sistematiche curato dalla Cochrane Collaboration. Il direttore della Cochrane Library, David Tovey, ha più volte ribadito l’appoggio della Collaborazione ai progetti e alle iniziative di cui Doshi, Jefferson e Godlee sono testimoni, nonché alla petizione AllTrials.net coordinata da Ben Goldacre: “La Cochrane Collaboration – spiega Tovey - intende realizzare due importanti obiettivi entro il 2020: produrre evidenze e renderle pienamente accessibili. E intende farlo attraverso un processo attivo di definizione delle priorità, coinvolgendo cioè direttamente le persone e indagandone bisogni e perplessità. La strategia è rispondere al meglio alle necessità degli utenti, e, quindi, a quelle degli sponsor, con revisioni tempestive e aggiornate, di qualità, scritte con un linguaggio di facile comprensione e presentate (o tradotte) in più lingue, garantendo la diffusione, la trasparenza e l’accessibilità dell’informazione. Con l’auspicio che le aziende, in futuro, si facciano promotrici di studi clinici sull’efficacia piuttosto che sugli effetti delle terapie.”
 
Arabella Festa e Mara Losi
Associazione A. Liberati - Network Italiano Cochrane

20 gennaio 2014
© Riproduzione riservata

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