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L’abuso di inibitori di pompa protonica può causare danni al fegato

di Maria Rita Montebelli

La scoperta viene dagli Stati Uniti, dove un gruppo di ricerca della University of California San Diego ha scoperto che l’assunzione di PPI si correla con un aumentato rischio di epatopatie croniche, che potrebbe essere mediato da un’eccessiva crescita di Enterobacteriacee. In attesa di ulteriori conferme, gli autori invitano però alla prudenza nella prescrizione degli anti-acido

10 OTT - Nel prescrivere i farmaci, ogni tanto bisognerebbe ricordarsi del significato etimologico del nome, che nel suo rovescio della medaglia, significa appunto veleno. I farmaci insomma sono preziosi se somministrati correttamente e per un adeguato periodo di tempo; ma possono, se mal utilizzati, diventare un problema. Dell’abuso di prescrizione degli inibitori di pompa protonica (ad assumerli sarebbe una persona su 10 nel mondo), farmaci di per sé preziosi che hanno strappato schiere di pazienti ulcerosi al bisturi, è stato ampiamente detto, come anche delle conseguenze di un loro abuso, ad esempio nel contributo dato all’epidemia di Clostridium difficile nei reparti ospedalieri.
 
Un articolo pubblicato oggi su Nature Communications, a firma di ricercatori della University of California San Diego School of Medicine, offre lo spunto per nuove considerazioni circa i danni prodotti da un loro uso scriteriato. Gli autori hanno infatti dimostrato, sia su modello animale (topo) che su studi sull’uomo che la soppressione della produzione acida gastrica indotta dai PPI determina un’alterazione di specifici batteri del microbiota, che facilita la comparsa di danni a livello del fegato e la progressione di tre particolari tipologie di epatopatie croniche.
 
“La secrezione acida dello stomaco – spiega Bernd Schnabl, professore associato di gastroenterologica alla UC San Diego School of Medicine – serve ad eliminare i microbi ingeriti; assumere farmaci come i PPI può dunque modificare la composizione del microbiota intestinale. In precedenza avevamo dimostrato che determinate tipologie di microbiota possono condizionare un aumentato rischio di epatopatie; siamo dunque andati a vedere se la soppressione della produzione acida dello stomaco potesse in qualche modo influenzare la progressione delle patologie epatiche croniche e abbiamo così scoperto che l’assunzione cronica di PPI promuove la crescita di Enterococchi nell’intestino e la loro traslocazione nel fegato, dopo possono esacerbare uno stato infiammatorio e peggiorare le epatopatie croniche.”
 
A preoccupare sono soprattutto la cirrosi epatica, attualmente al dodicesimo posto come causa di mortalità nel mondo, con numeri rapidamente in crescita nei Paesi occidentali; aumento attribuito per lo più all’epidemia di obesità, associata a steatosi non alcolica (NAFLD) e a steatoepatite (NASH), anche se ad oggi la metà dei decessi per cirrosi epatica sono riconducibili all’alcol.
Ma come visto, questo studio getta luce su una nuova possibile causa di progressione dell’epatopatia cronica e a preoccupare è anche il fatto che i PPI siano in assoluto tra i farmaci più prescritti al mondo, soprattutto tra le persone con patologie epatiche croniche.
 
I ricercatori americani in una prima fase dello studio sono andati a studiare le alterazioni del microbiota di topi ai quali era stata inibita la secrezione acida gastrica con i PPI, scoprendo in questo modo che gli animali presentavano un maggior numero di batteri di specie Enterococcus. Questa alterazione è risultata in grado di promuovere infiammazione e danni a livello epatico e a facilitare la progressione di tre specifiche patologie epatiche dei topi: epatopatia indotta da alcol, NAFLD e NASH. Per provare che la causa di questa aumentata progressione fosse riconducibile a questa disbiosi, i ricercatori americani sono andati a colonizzare altri topi con Enterococcus faecalis, per mimare l’eccessiva crescita indotta da PPI, dimostrando in questo modo che questa operazione era sufficiente ad indurre una lieve steatosi e a peggiorare un’epatopatia cronica alcol-relata negli animali.
 
Gli autori dello studio sono dunque andati ad indagare la presenza di una eventuale relazione tra terapia con PPI ed epatopatie croniche in una coorte di 4.830 pazienti con diagnosi di abuso cronico di alcol; il 21% di loro era in terapia con PPI; il 15% li aveva utilizzati in passato; solo il 63% non aveva mia effettuato terapia con questi farmaci. I ricercatori hanno evidenziato che nei soggetti in trattamento con PPI le concentrazioni fecali di Enterococcus risultavano aumentate; inoltre, il rischio a 10 anni di epatopatia alcolica è risultato essere il 20,7% per gli utilizzatori attivi di PPI, il 16,1% per chi ne aveva fatto uso in passato e il 12,4% per chi non era mai stato in terapia con questi farmaci. Oltre all’alcol insomma, anche il trattamento con PPI sembra condizionare un aumentato rischio di sviluppare un’epatopatia cronica.
 
Si tratta di un’osservazione preliminare scaturita da uno studio su modello animale che ha fornito il razionale per un’analisi approfondita su un vasto database di pazienti; la prova definitiva di una relazione tra assunzione di PPI e aumentato rischio di epatopatia, ammettono gli autori, potrà venire solo da una ampio studio randomizzato e controllato. Di certo però questi dati preliminari dovrebbero indurre un atteggiamento di prudenza nella prescrizione dei PPI, portando alla loro sospensione ove non strettamente necessari. Questo studio inoltre si è focalizzato sui PPI, ma non è detto che anche altri anti-acidi non PPI (ranitidina, bismuto, ecc) non diano il loro contributo a questo aumentato rischio di epatopatie croniche.
 
L’invito dunque anche in questo caso è alla prudenza. Ma la buona notizia è che, qualora questo meccanismo patogenetico degli Enterococchi venisse confermato, un giorno si potrebbe trovare il modo di attenuare la gravità di queste forme di epatopatia cronica, attraverso la modulazione del microbiota.
 
Maria Rita Montebelli

10 ottobre 2017
© Riproduzione riservata

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