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Welfare aziendale e Fondi sanitari. Il dovere della politica di dare una “spinta gentile”

di Marco Geddes da Filicaia

Una spinta gentile, in termini fiscali, dovrebbe indirizzarsi solo su quelle attività meritevoli di promozione, che riguardano l’insieme della popolazione di un’area. Favorire una sussidiarietà che sia non solo orizzontale, ma anche verticale nei confronti del territorio e delle sue istituzioni e, in particolare, finalizzata a quelle prestazioni e servizi per le fasce di età in cui la spesa vedrà un effettivo, rilevante, incremento. Premiare quindi la capacità di progettare il futuro

03 APR - Negli ultimi mesi il dibattito sul welfare aziendale e ai fondi sanitari ha visto alcuni contributi (Federico Spandonaro, Fondi integrativi o sostitutivi? La politica scelga quale ruolo e “merito” dare al Secondo pilastro, Quotidiano sanità, 17 marzo 2019; Massimo Campedelli, Spesa privata sostitutiva dei Livelli Essenziali di Assistenza, Ricerca & Pratica, 35, 2019, 68 – 74.) che, per la serietà e ampiezza di riflessioni, meritano una attenta lettura e valutazione, accogliendo anche la sollecitazione a specificare, da chi, come il sottoscritto che ha una posizione fortemente critica sul welfare aziendale e fondi integrativi, quale debba essere l’eventuale ruolo di un secondo pilastro e, in termini più generali (lo chiede, in particolare, Massimo Campedelli), cosa si intenda per universalismo, quale parte della spesa sanitaria e sociale privata debba essere considerata meritoria e dove può e deve arrivare la libertà individuale in tema di salute e fino a che punto debba essere sostenuta dallo Stato.
 
A questo insieme di domande potremmo forse sottrarci rispondendo che l’ampiezza dei quesiti comporta un trattato o quanto meno un ampio confronto diretto. Devo tuttavia riconoscere che tali interrogativi hanno il merito di restituire al dibattito pubblico la possibilità di discutere di valori; discuterne non vuol dire, ovviamente, proclamarli (e talora semplicemente “brandirli”, accusando l’avversario di non avere tali “alti valori”), ma, seppur brevemente, di argomentarli.
 
Cioè non tanto descriverli, ma motivarli e spiegarne la logica e le – anche pratiche - conseguenze. Infatti i valori sono spesso genericamente condivisi: tutti ci dichiariamo democratici, contrari alle ingiustizie, desiderosi di attenuare le diseguaglianze, di integrare i migranti aiutandoli prioritariamente a casa loro etc. etc. Ma dai valori, che rischiano di essere – almeno nella declamazione – una omogenea maionese, necessita passare ai principi e alle idee, vale a dire declinarli, per poi farne discendere programmi e selezionare le priorità.
Inizio dalla libertà individuale in tema di salute.
 
A me pare che il nostro ordinamento, ad iniziare dalle norme costituzionali, offra ampia protezione ai principi di libertà.Da un lato la libertà imprenditoriale, in ambito sanitario e sociale, che è tutelata e si è conseguentemente notevolmente sviluppata. Voglio ricordare che, in termini di prodotto interno lordo e numero di occupati, il settore socio sanitario privato (diretto e indiretto, comprendete forniture, farmaci, attrezzature, gestione di servizi accessori, oltre alle strutture sanitarie e sociali), supera quello pubblico.
 
In altri termini non siamo in presenza di una impresa statale omnicomprensiva (anzi, forse vi è una qualche deficienza in settori essenziali, quali farmaci, ricerca pubblica etc.) e nessuno propone una “statalizzazione” dei fornitori. Anche in termini di ospedalità quella privata è cresciuta in questi anni (vedi ad esempio in relazione al numero di posti letto) proporzionalmente più di quella pubblica, cioè ha ridotto in misura più contenuta la sua dimensione ospedaliera.
 
Riferendosi invece al singolo individuo, non come imprenditore, gli ambiti di normativa su cui si dibatte per la tutela della libertà dell’individuo e quindi di un suo diritto fondamentale anche per quanto concerne la salute, sono quelli principalmente dell’inizio e del fine vita, tematiche di grande rilevanza sotto il profilo bioetico, che non riguardano certo il rapporto e le caratteristiche della sanità integrativa.
Che poi tale libertà individuale trovi difficoltà nel suo effettivo espletamento, e che quindi i diritti di accesso alle cure, di qualità dell’assistenza non abbiano una piena attuazione è questione centrale nella valutazione le diverse proposte. Per dirla in termini schematici, la cartina di tornasole su cui valutare le diverse ipotesi – normative e organizzative – che uno Stato mette in atto è prioritariamente quella di ridurre le diseguaglianze, sia territoriali che individuali.
 
In parole molto semplici, rimuovere gli ostacoli che riducono la libertà, ostacoli che io ad esempio, personalmente (per cultura, rapporti amicali e professionali, reddito) non trovo sul mio cammino e, quando raramente mi si presentano – o mi si presentassero – facilmente rimuovo.
 
Cosa si intende quindi per universalismo in sanità?Anche qui la risposta rischia – ovviamente – delle semplificazioni, ma è un rischio che è opportuno correre. Per universalismo si intende da un lato che il sistema si basi sulla fiscalità generale, vale a dire su una modalità di tassazione progressiva in relazione al reddito, come recita l’articolo 53 della nostra Carta costituzionale.
 
Dall’altro lato, cioè sotto il profilo delle prestazioni, si potrebbe dichiarare – schematicamente e teoricamente – che i Livelli essenziali di assistenza definiscono il paniere che attua l’universalismo. Qui occorrono tuttavia delle precisazioni: si tratta di una visione sia teorica che contingente.
 
Teorica perché tali livelli necessitano, o necessiterebbero, di un continuo e puntuale aggiornamento per renderli via via più aderenti all’appropriatezza e all’evolversi delle conoscenze scientifiche. Contingente perché alcuni ambiti non compresi nei Lea lo sono non tanto per motivi di aggiornamento scientifico – tecnologico o di appropriatezza, ma per motivazioni, come dire, storico sociali e, non a caso, di mercato. Ad esempio la fornitura di occhiali da vista e di cure dentarie è sostanzialmente non compresa, nel nostro Paese, nei Lea ed era (ed è) fornita principalmente da erogatori privati, motivo che ha forse contribuito al loro non inserimento.  
 
Pertanto compito dello Stato dovrebbe essere quello di assicurare l’esigibilità effettiva dei Lea e di favorire quelle attività (meritevoli quindi di un indiretto sostegno pubblico) che forniscono prestazioni appunto “meritevoli”, ma non  coperte attualmente dai Lea. In base a tali criteri l’ambito socio sanitario e più direttamente sociale offre non ampi spazi ma, come dire, un’intera prateria!
 
Ovviamente anche questa ipotesi trova alcune autorevoli critiche che evidenziano come, in tal modo, si sottrae inevitabilmente il consenso ad un ampliamento del “paniere” da parte di cittadini che, non interessati ad un allargamento della copertura pubblica perché ne usufruiscono con Fondi e assicurazioni, non opereranno a favore di tale ampliamento ovvero vi si opporranno. Tuttavia questo potrebbe essere attualmente un livello di equilibrio fra i differenti punti di vista.
 
Chi teme una mutualità concorrenziale – osserva nel suo contributo Spandonaro – lo fa «…per la paura non dichiarata di innescare “voglie” di opting out, volontà peraltro mai espressa dai corpi intermedi».
In realtà tale timore è stato più volte, almeno nei dibattiti, esplicitamente dichiarato e si tratta, a mio parere, di una paura che ha solide motivazioni, a causa di un filo rosso che collega, nel corso dei decenni, diverse autorevoli posizioni.
 
Non sono certo in grado di offrire qui una esaustiva rassegna, ma solo alcuni spunti, ad iniziare dal Decreto legislativo n. 502 del 30 dicembre 1992, promosso dal ministro Francesco De Lorenzo, in cui tale previsione si affacciava, per così dire, in uno specifico articolo, poi modificato nel Decreto n. 517 dal successivo ministro, Maria Pia Garavaglia. Tale ipotesi veniva più ampiamente, ed esplicitamente ripresa nelle Proposte per una nuova sanità da parte della Confindustria (24 luglio 1997), associazione di categoria  che mi sembra possa essere definita  un influente “corpo intermedio”.
 
Indicazioni, meno esplicite, sono state avanzate in tal senso da Giuliano Amato nel periodo in cui era Presidente del Consiglio (la Repubblica, 27 settembre 1992); si susseguono  poi proposte analoghe da parte di economisti sui più rimportanti quotidiani, quale il Corriere della sera, in particolare a firma di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi.
 
Più recentemente l’onorevole Nicola Rossi anche a nome dell’Istituto Bruno Leoni, un think tank, in qualche misura “corpo intermedio”, ripropone tale obiettivo associandolo alla approvazione  della flat tax. A ciò si aggiunge e offre un riferimento, un orientamento della finanza internazionale, esplicitato nel Trade In Service Agreement (TISA), nel quale si legge che vi è  un potenziale enorme ancora non sfruttato per la globalizzazione dei servizi sanitari e che tale settore ha giocato solo un ruolo ridotto negli scambi internazionali. Ciò è dovuto al fatto che i sistemi sanitari – lamenta il TISA - sono finanziati ed erogati dallo Stato o da enti assistenziali e non sono di nessun interesse per gli investitori stranieri a causa dell’assenza di finalità commerciali.
 
Che dire? Poiché queste ipotesi si allargano esplicitamente dalla sanità all’istruzione il timore che la “nuova mutualità” sostitutiva possa essere il cavallo di Troia di un opting out non mi pare infondato, tanto più di fronte a un progressivo indebolimento, anche in termini di risorse correnti e perfino di investimenti, del sistema pubblico.
 
Coloro che sollevano perplessità o contrarietà rispetto all’espandersi dei Fondi integrativo/sostitutivi, come espresso in alcuni interventi su questo quotidiano (Sanità Integrativa: il mercato regolato non è la soluzione, 26 gennaio 2019), hanno, a mio parere ulteriori motivi che illustrerò brevemente.
 
In Italia, come in moltissimi Paesi, i sistemi sanitari e sociali si sono sviluppati tutelando i “produttori”,in quanto forza lavoro, secondo un criterio bismarkiano. Tale impostazione si è poi ampliata dal produttore ai familiari e si è avvalsa di una progressiva estensione  della base produttiva, sia in industria, nel commercio che nel pubblico impiego. Con l’approvazione della Riforma sanitaria si è passati dal produttore al cittadino.
 
La diffusione di Fondi integrativi aziendali, quale soluzione strutturale alla sostenibilità del servizio sanitario  non è tanto un, seppur parziale “ritorno al passato”, ma una contraddizione rispetto all’evoluzione del lavoro. Siamo infatti di fronte a un restringimento della base produttiva stabile, a una (auspicata o paventata) sostituzione dei lavoratori con i robot, a una diffusione della flessibilità. Di fronte a tali fenomeni il processo, in alcuni ambiti, è in realtà inverso: dal produttore al cittadino. Pertanto  dall’indennità di disoccupazione al reddito di (nominativamente) cittadinanza; dal trasporto collettivo per i lavoratori al trasporto pubblico gratuito per tutti (ipotesi in studio in Germania).  
 
L’altra perplessità, o preoccupazione, è di carattere finanziario.Chi ha assistito allo sviluppo del sistema mutualistico in Italia, o ripercorre la documentazione amministrativa di tali anni, ricorderà i continui contenziosi fra mutue e enti ospedalieri, la sospensione delle convenzioni, i fallimenti di alcune istituzioni di ricovero, la insolvenza delle mutue, la necessità di cospicui interventi dello Stato, fino  un rifinanziamento pari a 4.000 miliardi di lire nel 1974, il cui onere fu sostenuto con l’emissione straordinaria  di Buoni del Tesoro, pari al 6% del Pil!
 
Ora siamo proprio sicuri della attuale e futura stabilità finanziaria dei Fondi, a cui affidiamo finanziamenti pubblici (tramite la defiscalizzazione), contributi delle imprese e – di fatto - risparmi dei lavoratori? Non è facile dare una risposta persuasiva a tali dubbi, alimentati certamente dal fatto che altri settori dediti alla tutela del risparmio, pur sottoposti al controllo europeo (stress bank test) e in particolare a quello di autorevoli enti nazionali, quali Consob e Banca d’Italia, non hanno offerto un esempio rassicurante.
 
L’intervento di Federico Spandonaro solleva un elemento interessante, generalmente in ombra, che è quello del conflitto di interessi, evidenziando che se vi sono da una parte (gli “assicuratori” per dirla in termini succinti),  vi sono anche dall’altra analoghi conflitti, a carico degli operatori del SSN. L’osservazione è pienamente condivisibile, anche se la conclusione pare essere che i due “confliggendi” si, per così dire, annullino e pertanto quello che sussiste e che condiziona il dibattito sia solo una contrapposta visione della Società.
 
In realtà si tratta di interessi contrapposti e questo spiega, in parte, il motivo per cui un baluardo in difesa (usando una terminologia proto novecentesca) del servizio sanitario pubblico sia rappresentato proprio dai suoi operatori. I quali ritengono: che tale sistema possa e debba essere migliorato; che loro siano “degni” di stipendi più adeguati; che l’assunzione di nuovo personale porti beneficio ad una bene fondamentale (la salute dei pazienti) e anche un lavoro qualificato per  giovani (e in particolare per le donne), con una ricaduta sui redditi e quindi sui consumi; che formare medici, cosa che ci costa 150.000 € tax payers, per poi farli emigrare in larga quota all’estero non sia una cosa ottima; che il desiderio di trasmettere la loro esperienza lavorativa e professionale a giovani colleghi sia non solo legittimo, ma degno di attenzione; che il sistema sanitario in cui loro operano sia di qualità elevata – malgrado aspetti da implementare – e di costo contenuto per l’insieme della cittadinanza e sia quindi, in altri termini, sobrio e resiliente.
 
Quindi si tratta di decidere, da parte della Politica, se tale interesse sia degno di difesa anche contenendo o contrapponendosi ad altri interessi, in quanto rappresenta in sostanza l’interesse dei più rispetto all’interesse dei meno.
 
Quanto qui esposto non intende ridurre la rilevanza anche di visioni diversificate del ruolo dello Stato e del principio di Sussidiarietà che giustamente viene richiamato.
 
Si tratta, anche in questo caso, di definire in modo più articolato cosa si intenda per sussidiarietà;che cosa nello specifico in ambito sanitario e quale sia il punto di equilibrio fra sistemi sussidiari  diversificati e principi di uguaglianza tutelati dalla Costituzione.
 
Vi è una sussidiarietà in senso verticale, introdotta dal Titolo V della Costituzione, che riconosce la necessità di attribuire le funzioni a livello inferiore, quando queste siano meglio svolte e realizzate, e quindi nelle loro finalità espletate in modo più adeguato a tale livello di governo (in particolare comunale).
 
Vi è poi una sussidiarietà orizzontale, una modalità di gestione – erogazione di servizi da parte di soggetti associati, là dove tale capacità di realizzazione di obiettivi ne fosse appunto avvantaggiata.
 
Qui si tratta di un complesso sistema di rapporti fra livelli di Governo (Stato, Regioni, Comuni) e fra Stato e individui il cui parametro – a cui si riferisce Spandonaro – dovrebbe essere quello di una assunzione di responsabilità, e non solo richiesta di diritti, da parte dei cittadini.
 
Tale formulazione, condivisibile in molteplici settori di vita che determinano benefici per l’individuo, (ad esempio livelli diversificati di benessere oltre una soglia di “dignità”, in relazione alle responsabilità assunte nella professione, nei consumi, nel risparmio etc.), appara più complessa ove è in gioco un diritto fondamentale, quello che è stato definito un pre requisito per il godimento di altri diritti, ovvero un bisogno esigibile anche da un “irrersponsabile”.
 
Forse può essere utile, a fini esemplificativi, richiamare brevemente il dibattito su casi per così dire estremi o quanto meno esemplari. Ad esempio: si trapianta il fegato a un alcolista o il polmone a un fumatore quando non siamo ragionevolmente certi che smetta l’uno di bere e l’altro di fumare, o, quanto meno a ciò si impegni?
 
E, negando il trapianto con tale “logica” motivazione, come è accaduto in Inghilterra, come si risponde quando l’ex minatore ha domandato (con una lettera sul Guardian): perché? Perché io, che non ho mai usufruito di un ricovero in ospedale e, oltre a pagare le tasse per cinquant’anni per sostenere il NHS, ho effettuato un aggiuntivo esborso all’erario con l’acquisto – legittimo - di sigarette, ora non avrei diritti a tale terapia, cioè al trapianto, mentre offrite a una signora residente da soli quattro anni in Inghilterra, con pagamento di tasse pertanto limitato, un esame mammografico gratuito il cui beneficio per lei ha una bassissima probabilità?
 
A me sembra quindi che il richiamo alla responsabilità sia non solo corretto, ma doveroso, finalizzato tuttavia alla ricerca di strumenti, assetti organizzativi, modalità collettive e partecipative che elevino il senso di responsabilità. Anche sotto tale profilo, è necessario determinare quale sia il criterio per definire la premialità che lo Stato vuole dare a scelte e consumi in ambito sanitario; in quale direzione, verso quale assunzione di responsabilità e di equità con tale strumento, attraverso detrazioni e deduzioni (e, in altro ambito, attraverso tassazione di beni di consumo, quali alcool, tabacco, bevande zuccherate etc.) intenda mettere in atto - per usare l’espressione utilizzata dal premio Nobel per l’economia, Richard Tholer, -una “spinta gentile”.
 
Ecco, è proprio tale orientamento che non viene esaminato nel dibattito e che, nella realtà, nelle offerte del sistema assicurativo e delle piattaforme di intermediazione del welfare aziendale, e nella conseguente realtà contrattuale, non viene solo smarrito, ma acquisisce spesso orientamenti che definirei opposti.
 
Non individua un cittadino responsabile all’interno di una comunità, ma un consumatore, offrendo a lui – prepagati dal sottoscritto contratto e conseguente pacchetto  di welfare sanitario - prodotti, prestazioni, talora di dubbia utilità. Che questa sia una forma di responsabilizzazione ne dubito.
 
Vi è un esempio eclatante, come dire “di scuola”.Il ticket è una tassa sulla malattia che conserva secondo alcuni una funzione, quale contrasto al moral hazard, per ridurre comportamenti inappropriati, opportunistici e conseguenti consumi eccessivi.
Anch’io, seppur critico, ho affermato che una parte residua del ticket, per farmaci “griffati” quando vi è l’equivalente, o per un uso strumentalmente improprio del pronto soccorso per saltare la funzione di gatekeeper del medico di base, è utile.
 
Ora mi spiegate che senso ha per uno Stato che vuole esercitare tale funzione di orientamento promuovere con agevolazione fiscale un welfare che rimborsa il ticket, mettendo pertanto tale premialità a carico della popolazione nel suo complesso.  Un passo ulteriore in questo sistema di welfare sostenuto fiscalmente – lo affermo provocatoriamente – è il rimborso delle multe per divieto di sosta così che uno possa agevolmente parcheggiare nel posto riservato agli handicappati!
 
Un ulteriore settore che dovrebbe essere inibito alla premialità è l’ambito preventivo,essendo questo un compito della collettività, con livelli certo di sussidiarietà verticale, quindi con  gestione ed erogazione adeguati e, ovviamente, prossimali. L’esempio tipico e oggetto di accurate valutazione è lo screening della mammella. La individuazione dell’età e della periodicità è motivata da una valutazione di costi  - rischi / benefici.
 
L’offerta di copertura ad altre fasce di età (in termini ovviamente di screening) o di accesso spontaneo aumenta i rischi di sovaesposizione alle radiazioni e di sovradiagnosi. Indebolisce inoltre l’intervento pubblico che riduce la copertura (o sottopone la stessa paziente a un doppio accertamento), lo costringe a ricontattare un numero più elevato di non rispondenti, ne altera l’efficienza in termini di invitati – esaminati.
 
Non capisco allora perché un accordo sindacale non proponga, in assenza di una attività di screening, di allargare tale offerta prevista per altre aree del territorio (o in regioni limitrofe) alla popolazione femminile dell’azienda e del comprensorio in cui l’azienda è localizzata, attraverso un potenziamento del servizio pubblico sostenuto da tale finanziamento, con un parziale sacrificio dei lavoratori che potranno contare, in vista del calcolo della loro pensione, su un minor ammontare di versamenti effettuati qualora tale finanziamento lo avessero ottenuto in busta paga e un onere della fiscalità generale. Solo un corretto beneficio collettivo giustifica tali oneri.
 
Vi sono infine due elementi che vengono evidenziati nei contributi citati: i Fondi calmierano i prezzi e  fanno emergere l’evasione fiscale.Immagino che entrambe le osservazioni siano riferite alla quota di spesa out of pocket poiché un’evasione fiscale nel sistema pubblico appare quanto meno marginale e il sistema dei prezzi, con standard di riferimento, aste pubbliche, controllo dei revisori, acquisti concentrati nella Consip o negli appositi Enti di supporto tecnico amministrativo regionali, con la possibilità di maxi gare, dovrebbe dare garanzie analoghe e forse maggiori di quelle fornite da alcune centinaia di Fondi con molte migliaia di erogatori.
 
Anche la massiva offerta di prestazioni private in out of pocket ha portato – anche se non sono a conoscenza di adeguate indagini di mercato – a un abbassamento dei prezzi specie in realtà in cui i corpi intermedi (penso all’associazionismo e al volontariato) propongono prestazioni diagnostiche e specialistiche, ormai concorrenziali anche rispetto al costo dei ticket.
 
Discorso diverso e a me poco noto è quello dell’evasione che presuppone tuttavia che il secondo pilastro (Fondi) assorba il terzo (out of pocket) e non sia un ulteriore livello di spesa con duplicazione di prestazioni; che la entità della evasione e la  capacità di contrastarla sia tale da assorbire i costi di gestione amministrativa, di accantonamento, di profitto, che assommano a oltre il 40% dei premi e che sono alla base, nei Paesi con sistemi misti, di una crescita dei costi assicurativi maggiore dell’incremento della spesa sanitaria pubblica e di quella out of pocket. Una ipotesi in realtà poco credibile.
 
Nella prospettiva di sostenibilità del sistema la spesa sanitaria pubblica italiana, come noto, non è destinata a crescere fino ad età avanzata e l’incremento si concentra – per ragioni di struttura per età - dopo i 75 anni.
 
Una spinta gentile, in termini fiscali,  dovrebbe pertanto indirizzarsi solo su quelle attività meritevoli di promozione, che riguardano l’insieme della popolazione di un’area; favorire una sussidiarietà che sia non solo orizzontale, ma anche verticale nei confronti del territorio e delle sue istituzioni e, in particolare, finalizzata a quelle prestazioni e servizi per le fasce di età in cui la spesa vedrà un effettivo, rilevante, incremento. Premiare quindi la capacità di progettare il futuro.
 
Marco Geddes da Filicaia

03 aprile 2019
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