Nei prossimi anni, nel nostro Paese, il numero di medici e infermieri che andrà in pensione sarà di gran lunga maggiore di quello dei potenziali nuovi assunti. Dal 2026 al 2030, infatti, “perderemo 66.670 infermieri e 35.600 medici”, mentre gli effetti della recente riforma dell’ingresso a Medicina arriverà solo tra 6-7 anni. Nel prossimo quinquennio, dunque, il saldo negativo tra ingressi e uscite previsto sarà, ogni anno, di -10.334 per il personale infermieristico e di -5.287 per i camici bianchi.
È quanto emerge da uno studio condotto dal servizio Stato sociale, Politiche fiscali e previdenziali, Immigrazione della Uil, diretto dal segretario confederale Santo Biondo. Utilizzando i dati forniti da ministero della Salute e Mur, la ricerca ha messo a confronto il numero di medici e infermieri che concluderà la propria carriera tra il prossimo anno e il 2030 con il numero di nuovi posti banditi annualmente dal ministero dell’Università e Ricerca.
Ma vediamo i dati emersi.
Per quanto riguarda gli infermieri, quelli attualmente impiegati in Italia sono 268.013, con un’età media di 46,9 anni. “Pertanto – spiega la Uil – abbiamo potuto stimare che, tra il 2026 e il 2030, ad invarianza di legge in tema di quiescenza, i professionisti che andranno in pensione saranno 66.670, ossia 13.334 l’anno. Parallelamente, nello stesso quinquennio, saremo in grado di formarne, e quindi di assumerne, solo circa 3.000 l’anno, con un rapporto tra percorsi universitari conclusi e infermieri che cessano l’attività annuale di -10.334 professionisti. Una stima per giunta ottimistica, se consideriamo che le immatricolazioni ai corsi di laurea in scienze infermieristiche si sono ridotte di oltre il 50% e che i concorsi si svolgono con un numero di partecipanti inferiore ai posti disponibili”.
Sempre dai dati forniti dal ministero della Salute, attualmente, spiega il sindacato, “i medici in forza sono 101.827, con un’età media di 52,7 anni. Ad invarianza di legge in tema di pensioni, sempre secondo le nostre stime, tra il 2026 e il 2030 andranno in pensione 35.600 medici, 7.120 l’anno. Nello stesso arco di tempo, considerata la media delle borse di specializzazione bandite complessivamente dal Miur negli ultimi 3 anni e ipotizzando che tutte vadano a buon fine, saremmo in grado di assumere solo 1.833 nuovi medici specializzati l’anno, con un rapporto negativo tra borse bandite e medici che cesseranno di esercitare per la precisione pari a -5.287 professionisti l’anno. Peraltro, la recente riforma che elimina il test di accesso alla professione medica produrrà, potenzialmente, i suoi primi effetti solo tra 6-7 anni e resta irrisolta, comunque, la questione del ristretto numero di accesso alle specialistiche che risultano ad oggi più carenti e meno valorizzate”.
Per la Uil “ciò che pesa sul futuro delle professioni sanitarie è questo imbuto formativo che, insieme alle scelte del Governo, frena l’ingresso di nuove forze nel settore sanitario, rendendo cronica la carenza di queste figure professionali specializzate. La carenza di personale sanitario è quindi un dato conclamato. Se ne discute da qualche anno, nel dibattito politico e non solo, ma senza l’avvio di soluzioni strutturali e di qualità”.
Il Governo “non solo non ha mantenuto la promessa di togliere il tetto alla spesa del personale sanitario, ma – sottolinea Biondo – continua imperterrito con interventi inadeguati che non rispondono ai bisogni strutturali del nostro sistema sanitario. I finanziamenti indiscriminati alla sanità privata o il ricorso ai gettonisti sono ‘non soluzioni’ che finiscono per creare maggiore confusione nei percorsi assistenziali e per ridurre la qualità dell’assistenza sanitaria”.
“Per rendere attrattive le professioni sanitarie e irrobustire il Servizio sanitario nazionale c’è molto da fare” aggiunge quindi Biondo, secondo il quale “occorre migliorare l’organizzazione del lavoro, definire chiari percorsi di crescita professionale, adeguare gli stipendi degli operatori sanitari alla media europea, incentivare economicamente e fiscalmente i professionisti che lavorano in sedi disagiate, favorire il benessere lavorativo attraverso il potenziamento del welfare aziendale e garantire la sicurezza e salute del personale sanitario”.
E da questa prospettiva purtroppo, conclude il sindacalista “le scelte del Governo rappresentano un’occasione persa per il raggiungimento di questo obiettivo di valenza sistematica”.