La depressione puerperale, un disturbo dell’umore, colpisce tra il 7 e il 12% delle donne in Italia con intensità variabile. Una che condizione che può “manifestarsi fino a un anno dopo il parto, anche se generalmente compare entro sei mesi”.
A richiamare l’attenzione sul fenomeno e su come ndividuarne precocemente i segnali di rischio è la Fnopo, in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale
“La depressione puerperale – ha spiegato Gabriella Gentile, Consigliera della Federazione Nazionale degli Ordini della Professione Ostetrica (Fnopo) – va distinta dalla Baby Blues, una forma lieve e transitoria che si risolve spontaneamente entro 10‑15 giorni dal parto. Al contrario, la depressione post-partum può provocare sintomi più severi, tra cui tristezza persistente, senso di vuoto, irritabilità, perdita di interesse per le attività abituali, disturbi del sonno, affaticamento, difficoltà di concentrazione e, nei casi più gravi, pensieri suicidari o di far del male al neonato. La forma più rara e grave, la psicosi puerperale, richiede un intervento immediato ed è caratterizzata da deliri e allucinazioni”
Fattori di rischio e conseguenze La letteratura evidenzia i diversi fattori che aumentano il rischio di depressione puerperale: “Una storia personale o familiare di disturbi psichiatrici, cambiamenti ormonali, stanchezza intensa, prima gravidanza, giovane età, mancanza di supporto sociale e condizioni socio-economiche difficili. Eventi stressanti prima o durante la gravidanza possono contribuire ulteriormente. Le conseguenze di una mancata presa in carico sono evidenti sia per la madre sia per il bambino. La donna può avere difficoltà a prendersi cura del neonato, peggiorare il proprio stato emotivo e andare incontro a cronicizzazione della malattia. Il bambino, invece, può subire ripercussioni sul bonding madre-figlio e sullo sviluppo emotivo e cognitivo”, spiega Gentile. Anche le relazioni familiari ne risentono. “Nonostante la rilevanza del problema, molte donne non ricevono una valutazione specifica, e si stima che solo circa la metà dei casi venga adeguatamente riconosciuta”, denuncia la professionista sanitaria.
Strumenti di screening: l’Epds Per individuare precocemente i segnali di rischio, vengono utilizzati strumenti di screening, tra cui l’EPDS (Edinburgh Postnatal Depression Scale), il più diffuso in Italia sia durante la gravidanza sia nel puerperio fino a un anno di vita del bambino. Come spiega Gentile, si tratta di “un questionario autosomministrato di dieci items che valuta umore, ansia, isolamento e pensieri suicidari. L’autosomministrazione è rapida (circa 5 minuti) e ben accettata, e il cut‑off può variare a seconda del contesto (popolazione vs clinica), influenzando sensibilità e specificità”. Gentile ricorda che “il questionario non sostituisce il colloquio clinico, che resta indispensabile: se il punteggio risulta positivo, si integrano valutazioni cliniche e psicologiche più strutturate”.