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No a semplificazioni sull’appropriatezza prescrittiva

di Ornella Mancin

18 SET -

Gentile direttore,
ogni tanto, specie quando è necessario recuperare qualche risorsa in sanità, ritorna il tema dell’appropriatezza prescrittiva. Tutti ci ricordiamo il decreto Lorenzin (fine 2015) che per ridurre l’inappropriatezza fissava per decreto gli esami prescrivibili per una determinata patologia, arrivando persino a dirci quando si poteva richiede il dosaggio del potassio.

Il decreto non ha avuto molto successo ma il tema della appropriatezza prescrittiva tiene banco anche in questo inizio d’autunno.

In questi giorni il ministro Schillaci in un suo intervento pubblico ha affermato che esiste un 20-30 % di inappropriatezza (QS 15 settembre).

Naturalmente i responsabili di questa inappropriatezza sono i medici prescrittori, identificati in primis nei medici di famiglia.

Succede così che in Veneto sia già stato siglato un patto a Belluno tra l’Azienda Sanitaria Locale 1 e i principali sindacati dei medici di famiglia che offre incentivi finanziari ai medici che “applicando criteri di appropriatezza” porteranno a una “riduzione delle prescrizioni di specialistica ambulatoriale.” L’Obiettivo “dice il segretario regionale Fimmg Scassola “è di estendere questo approccio a tutte le Aziende Sanitarie Locali”.

Non sono certo scandalizzata dal tipo di accordo (in molte aziende si usano gli incentivi economici per ottenere i risultati voluti); mi piacerebbe però che si facesse una riflessione più profonda sull’argomento, che portasse magari a delle soluzioni più strutturali e durature.

L’appropriatezza prescrittiva dovrebbe essere insita nell’attività quotidiana di un medico. Allora perché esiste una quota di richieste inappropriate?

In una buona parte dei casi questo è legato a richieste improprie che partono dai pazienti, che leggono su internet, si informano, sentono amici e conoscenti, si convincono che devono fare certi esami e li “esigono” dal loro medico di famiglia. Non sempre il medico è in grado di stoppare queste richieste spesso immotivate: ci vuole esperienza, tempo per parlare con il paziente e convincerlo, tempo per una visita accurata che tolga ogni dubbio. Ma soprattutto bisogna non essere sottoposti al ricatto della revoca. In questo senso il rapporto “fiduciario” a quota capitaria è fallimentare. Del resto, non vale anche per le aziende sanitare lo slogan “il cliente ha sempre ragione?

Un’altra buona quota di inappropriatezza deriva dalla medicina difensiva che porta alla paura della denuncia da parte dei pazienti che oramai possono denunciare “gratis” qualsiasi situazione con la promessa di risarcimenti consistenti.

Perché finalmente non pensare di rimuovere le cause più profonde che creano l’inappropriatezza prescrittiva?

Ognuno di noi ha una laurea in medicina, spesso una specializzazione o un corso di formazione in medicina generale, frequenta corsi di aggiornamento, va a congressi … come si può pensare che non sappiamo discernere tra esami necessari e non?

Gli incentivi economici ai medici espongono al rischio di sottovalutare le situazioni o di spingere l’utenza verso il privato, ci rendono invisi alla popolazione (i titoli usciti sui giornali fanno pensare a dei medici che risparmiano sulla salute dei pazienti) e non producono effetti strutturali.

Quello che serve è un diverso rapporto di lavoro che dia al medico di famiglia uno stipendio dignitoso senza che questo dipenda da un numero variabile di assistiti che posso punirlo revocandolo perché meno accondiscendente di altri colleghi; serve un diverso approccio delle aziende sanitarie nei confronti degli assistiti che non sono clienti che hanno sempre ragione, serve una depenalizzazione dell’atto medico ( di cui si parla da anni senza che si sia giunti a una qualche soluzione) .

Ma credo che soprattutto serva investire in una azione di educazione della popolazione perché il mantenimento di un efficiente servizio sanitario esige l’impegno personale non solo alla conservazione della propria salute con adeguati stili di vita ma anche all’uso responsabile delle risorse che non sono infinite e il cui risparmio va a beneficio di tutti. Serve un patto con il cittadino, che deve essere non semplice fruitore passivo del SSN ma in parte corresponsabile della sua esistenza, in qualche modo suo custode, perché il SSN è davvero un bene comune che garantisce cure eque a tutti. E tutti dobbiamo essere ugualmente coinvolti nella sua salvezza.

Serve un cambio di passo culturale che renda la società consapevole che la sanità pubblica è un bene da preservare a beneficio di tutti.

Ornella Mancin



18 settembre 2023
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