Gentile direttore,
un recente intervento a firma Garavaglia e Razzano, pubblicato sul quotidiano Avvenire, pone l’accento sul dibattito del diritto a morire, così come vissuto oggi da molti a seguito della determinazione della Consulta sulla impunibilità dell’atto del suicidio medicalmente assistito. Sul tema, la discussione è aperta, e all’interno di questa viene collocato il ruolo delle cure palliative.
Certo è vero che cure palliative di qualità, venendo incontro al dolore e alla sofferenza di chi è in una condizione critica di salute fisica, morale, spirituale intollerabile, possono ridurre il desiderio di interrompere la vita.
Però è altrettanto vero che le cure palliative non possono coprire sempre le motivazioni della richiesta di suicidio assistito o di eutanasia.
Quindi, mentre da un lato è civile comprendere il diritto alla autodeterminazione, dall’altro non è lecito pensare che questo possa essere in un qualche modo pilotato dalle cure palliative.
Il dibattito, con questo panorama, si dovrebbe spostare sulla individuazione di modelli operativi e metodologie di intervento clinico orientati verso l’affinamento di strategie di cura o di prendersi cura sempre più mirati ad una accettazione della vita piuttosto che ad una resa alla incapacità di gestirla.
In altri termini, se le cure palliative non possono oggi fare sempre fronte alla intollerabilità di una vita non vita, i dati che abbiamo su certe situazioni, in cui con successo vengono applicate, ci dice che una strada sul loro potenziamento possa essere giusta e giustificata.
Anche in questo ambito che crea divisioni e dilemmi, talora separazioni di posizioni e di intenti, se le cure palliative devono avere un ruolo bisogna che si dotino di una concentrazione anche sul tema del fine vita ma non come viene vista oggi, per uscire da una ambiguità che ne confonde il significato.
Sulla carta nell’ordinamento didattico universitario ci sono già norme e modelli sulla formazione di operatori della salute dedicati alle cure palliative. Ma una solida “call for action” della Accademia non può limitarsi allo studio di metodologie educative senza che venga coltivato un terreno fertile sulla ricerca. Ecco allora che la ricerca scientifica nelle cure palliative, così come sottolineato dal Comitato Nazionale di Bioetica e ancora oggi debole anche nel nostro Paese, può essere la base per dare forza alla materia e metterla in condizioni sempre più solide in prossimità del fine vita e dei crescenti bisogni che tale fase dell’esistenza comporta. Solo in questo modo possono entrare meglio in un dibattito che vede posizioni che spesso si nutrono di ideologie e preconcetti. Si intende qui non spingere al superamento dei limiti di terapia di una malattia ma di potenziare una cura, quella palliativa, togliendola da una ambiguità che sà di strumentale e sostenerne il ruolo di cura che, come ogni medicina, sulla ricerca deve fondare il suo progresso contro ostacoli e diffidenze, anche apparentemente insormontabili, per il bene dell’Uomo.
Guido Biasco
GiuiUniversità di Bologna