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L’eroismo stanco: quando il sacrificio personale diventa pericoloso  

di Luigi Di Candido

30 APR - Gentile Direttore,
Timeo Danaos et dona ferentes – temo i Greci anche quando portano doni. La celebre citazione virgiliana, oggi più che mai, potrebbe essere riferita a certi atteggiamenti celebrati nel mondo della sanità come fossero doni preziosi. Quando le società scientifiche esaltano l’eroismo individuale e normalizzano il rischio, forse è giunto il momento di interrogarsi sul significato reale di questi “doni” potenzialmente rischiosi.

Il 24 aprile, sulla homepage Facebook della SIMEU (Società Italiana di Medicina di Emergenza-Urgenza), è apparso un video accompagnato da un testo che riporta l’intervista a un medico del pronto soccorso di Pietra Ligure, andata in onda su Radio2. Il professionista racconta con tono compiaciuto di lavorare in un reparto da circa 200 accessi giornalieri, specializzato in traumi, svolgendo turni di 12 ore consecutive nonostante una frattura alla scapola. Lui stesso definisce il busto ortopedico che indossa come un “cilicio medievale”. Il post è corredato da numerosi hashtag che inneggiano all’orgoglio e alla fierezza per questo comportamento, che – a ben vedere – andrebbe invece stigmatizzato.

Proprio nello stesso giorno, il National Health Service britannico ha pubblicato un report investigativo dal titolo The Impact of Staff Fatigue on Patient Safety. Il documento analizza i rischi che la stanchezza e lo stress degli operatori sanitari comportano per la sicurezza dei pazienti. Due visioni diametralmente opposte: da un lato, il culto del sacrificio personale e del machismo; dall’altro, l’evidenza scientifica dei suoi effetti negativi.

In quali altre organizzazioni sociotecniche complesse – come sono la sanità e, in particolare, la medicina d’emergenza – si celebra la minorazione fisica come segno di dedizione e valore? Sarebbe mai autorizzato un pilota civile a volare con un braccio “fuori uso”? Verrebbe mai inviato in missione un paracadutista con una recente distorsione di caviglia?

Si dimentica spesso che il “saper essere” ed il conseguente abbandono della “mentalità dell’artigiano” – secondo la visione di Amalberti – non può prescindere dalle condizioni minime di idoneità fisica e mentale. La sicurezza e la qualità delle cure non possono poggiare sull’abnegazione individuale ma su una cultura organizzativa matura, capace di distinguere tra resilienza individuale e possibile fonte di pericolo.

Celebrando episodi del genere si corre il rischio di “normalizzare la devianza”. Si favorisce un modello di lavoro insostenibile, che “scivola” silenziosamente verso il rischio sistematico, come ben spiegano gli studi di Vaughan e Rasmussen sulla deriva organizzativa.

La domanda è semplice: come potrebbe un medico con un arto compromesso eseguire una buona sutura complessa, una manovra ortopedica riduttiva o una rianimazione cardiopolmonare efficace in condizioni di emergenza, magari in assenza di altri colleghi “esperti” o disponibili al momento? In un sistema già provato dalla carenza di personale qualificato, simili scenari sono tutt’altro che remoti.

Il medico intervistato parla divertito dell’empatia suscitata dalla propria nuova condizione, chiedendosi perché mai non dovrebbe farlo. Ma che una società scientifica condivida e, implicitamente, esalti questo approccio, dovrebbe far riflettere profondamente.

Dopo anni di impegno per migliorare la sicurezza delle cure, ci ritroviamo a celebrare l’eroismo individuale al posto della prudenza, del metodo e del buon senso. È il segnale di un’involuzione culturale. Servirebbe oggi, più che mai, il coraggio di scuotere le coscienze, per riportare il discorso su binari di consapevolezza, realismo e responsabilità.

Luigi Di Candido
Coordinamento – Puglia INSH
Italian Network for Safety in Healthcare

30 aprile 2025
© Riproduzione riservata

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