Gentile direttore,
nel cuore delle trasformazioni sociali, economiche e tecnologiche del nostro tempo, le professioni sanitarie si trovano sospese tra la loro storia e la necessità di una radicale riconfigurazione. Un tempo simboli di status e custodi di saperi specialistici, oggi appaiono – spesso – come istituzioni anacronistiche: rigidamente formali, selettive, fondate su cerimoniali di accesso e su una liturgia universitaria che fatica a riflettere la complessità e la fluidità del lavoro contemporaneo. Ma proprio da questa crisi identitaria potrebbe emergere una nuova morfologia professionale, più dinamica, inclusiva e adattiva.
L’ipotesi, provocatoria ma non infondata, è che il termine “professione” abbia esaurito la sua capacità di descrivere il lavoro ad alta intensità di conoscenza. Parlare oggi di “professionalismo” potrebbe sembrare un esercizio nostalgico, un tentativo di mantenere in vita un lessico che appartiene a un’epoca di confini netti e ruoli ben definiti. Tuttavia, nonostante questa tensione linguistica, abbandonare del tutto la terminologia rischierebbe di oscurare proprio ciò che distingue il lavoro esperto dalla semplice esecuzione: la responsabilità, l’etica, la fiducia e la capacità di assumere decisioni in condizioni di incertezza.
È proprio quest’ultimo elemento – il controllo dell’incertezza e del rischio – che storicamente ha legittimato il ruolo delle professioni. Eppure, nella contemporaneità algoritmica, dove il rischio è spesso pre-elaborato e mediato da piattaforme e protocolli, questa legittimazione va reinterpretata. Le professioni non possono più fondarsi su una rendita di posizione, ma devono dimostrare la propria infungibilità, ossia la capacità di produrre valore che non può essere replicato da altri soggetti, siano essi automatizzati o meno. Lo status quo professionale è straordinariamente resistente. Le istituzioni professionali, come organismi viventi, tendono all’omeostasi: resistono al cambiamento finché una crisi non rende insostenibile la forma esistente.
E proprio la crisi – intesa non come collasso, bensì come biforcazione – può attivare processi morfogenetici: nuove combinazioni tra sapere e organizzazione, tra autonomia e responsabilità, tra competenza e accountability. È in questi momenti che le professioni possono occupare “spazi interstiziali”, rivalutando la loro struttura interna fra competenze core, trasversali e comuni; reinventandosi laddove altri modelli falliscono o si ritirano. La morfologia che ne deriva non è uniforme, né lineare: è una geografia complessa di ruoli ibridi, di alleanze interprofessionali, di nuove metriche per la fiducia e di un’etica della presenza nel contesto, non solo dell’appartenenza a un ordine. Le professioni hanno spesso coltivato un intento protezionistico, aspirando a mantenere un monopolio su determinate attività.
Ma in un mondo caratterizzato da iper-specializzazione, interdisciplinarietà e disintermediazione, il vero obiettivo non è più il controllo esclusivo, bensì l’egemonia funzionale: la capacità di essere riconosciuti come essenziali in relazione a un bisogno e di proporre soluzioni che nessun altro soggetto è in grado di offrire. Per ottenere questo riconoscimento, le professioni devono reinventarsi non solo come tecnologie sociali per la gestione dell’incertezza, ma come piattaforme cognitive per l’innovazione sistemica. È qui che risiede il loro potenziale trasformativo: nella possibilità di essere vettori di senso e di valore in un mondo in cui il sapere è diffuso, ma non sempre connesso all’etica della responsabilità. La morfologia futura delle professioni sarà una genealogia fatta di discontinuità, crisi, riarticolazioni. E forse, proprio per questo, sarà anche più autentica e feconda.
Le professioni che sapranno abbandonare l’elitarismo senza perdere il rigore, che sapranno aprirsi al mondo senza dissolversi nella retorica del servizio, saranno quelle in grado di guidare – e non subire – la trasformazione del lavoro esperto nel XXI secolo. Non si tratta di “salvare” le professioni, ma di trasformarle in ciò che possono diventare: infrastrutture etiche e intelligenze collettive capaci di abitare, comprendere e ridisegnare la complessità. Per chi saprà vivere questa trasformazione, non sarà solo un cambio di forma. Sarà una nuova intelligenza. Sistemica. Collettiva. Curante.
Renzo Ricci