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Numero chiuso, mente aperta. Le professioni sanitarie viste dal campo   

di Grazio Gioacchino Carchia

10 GIU - Gentile Direttore,
ci sono battaglie che si combattono a colpi di decreti. E poi ci sono quelle che si combattono a colpi di percezioni. In questi giorni, con il DM 418 che ridefinisce l’accesso a Medicina, la questione dell’identità delle professioni sanitarie è tornata a galla come un relitto di un naufragio mai raccontato. L’articolo 8 prevede che chi non supera il “semestre filtro” potrà passare ai corsi affini: quelli delle professioni sanitarie. Affini, sì. Come se fossero comode camere d’albergo per chi ha perso il treno a lunga percorrenza.

Ma lasciamo per un attimo i codici ministeriali e proviamo a scendere nei reparti, nei laboratori, nelle corsie. Lì dove si muovono le figure che animano il cuore del sistema salute, quelle che spesso non hanno un volto nei manifesti o nei servizi in prima serata.

Parliamo di chi è tecnico, terapista, assistente, logopedista, educatore, infermiere. Di chi lavora in ombra, ma fa brillare l’intero impianto. Parliamo anche di quello sguardo che a volte riceviamo quando diciamo che siamo “professioni sanitarie non mediche”, come se dovessimo giustificarci.

“Sei qui perché non sei entrato a Medicina?”, “Ti piaceva Biologia, ma poi hai ripiegato su Tecniche di laboratorio?”. Domande come coltelli. Educate, ma affilate.
Eppure, le nostre strade non nascono dal fallimento di un sogno, ma dal desiderio di servire in modo diverso. Di fare parte di un meccanismo più grande, anche se meno celebrato.

È facile dire che ogni professione ha dignità. È più difficile riconoscerla davvero, soprattutto quando l’università ti ricorda, con le modalità d’accesso, che esiste una scala gerarchica. E che tu, studente o professionista, ci stai sopra o sotto.

L’identità costruita sul campo. Nel mondo reale, non è il test d’ingresso a determinare la qualità della cura. È l’empatia, l’attenzione, la precisione, la dedizione, la voglia di studiare e aggiornarsi, anche quando nessuno applaude.

Un Tecnico di Laboratorio Biomedico non incontra il paziente, ma lavora sul suo sangue, sulla sua diagnosi, sul filo invisibile che collega il dato alla decisione clinica. Un Logopedista ricostruisce il linguaggio con la pazienza di un poeta. Un Tecnico della Prevenzione previene disastri prima che accadano, spesso nell’indifferenza più totale. E potremmo continuare con ogni figura, ognuna con la propria missione, la propria fatica, e il proprio silenzio.

Non bastano le riforme normative. Serve un cambio di narrazione. Serve dire agli studenti delle scuole superiori che scegliere una professione sanitaria non medica è un atto di coraggio, visione e vocazione. Serve che i media raccontino storie diverse, più complesse, più vere. Serve che nei reparti non si dica più “quello è il medico, voi siete… il resto”. Serve, in sintesi, aprire la mente, anche se i numeri restano chiusi.

Non chiediamo pietà né parità forzata. Chiediamo rispetto intelligente. Quello che si guadagna con l’esempio, ma anche con l’onestà di riconoscere che la cultura del sistema salute è ancora ferma al Novecento, mentre le sue esigenze hanno già un piede nel 2050.

Ecco perché, oggi, a fianco di chi firma decreti e difende i diritti dal vertice delle istituzioni, è importante che parli anche chi vive ogni giorno il peso invisibile della percezione. Perché l’identità professionale non si costruisce solo nei palazzi, ma anche nei corridoi, nei tirocini, nei sogni degli studenti.

E soprattutto nei sorrisi stanchi di chi, pur non avendo vinto il “grande test”, ogni giorno si mette il camice e fa la differenza. Anche se nessuno lo dice.

Grazio Gioacchino Carchia
TSLB
Fondatore del Gruppo PSU Professioni Sanitarie Unite

10 giugno 2025
© Riproduzione riservata

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