Quanta confusione nella comunicazione Covid
di Silvana Quadrino
21 MAG -
Gentile Direttore,
mi occupo da quasi 40 anni di educazione alla salute e di comunicazione nella relazione di cura. In questi giorni sento crescere, rinforzati da foto di folla, l’invito alla responsabilità e l’indignazione verso chi questa responsabilità non la sta dimostrando. Responsabilità. Responsabilizzazione. Uno dei capisaldi dell’educazione alla salute, che altrimenti si riduce a semplice emissione di norme a cui obbedire.
La responsabilità non è un fattore genetico: si sviluppa, si fa crescere, ciascuno nel proprio ambito, i genitori con i figli, i professionisti sanitari con i loro pazienti, i politici con i cittadini.
Se un gran numero di persone si sta comportando in modo irresponsabile, ne dobbiamo dedurre che sono pazze o cattive, come sentenziano i post dei social, che stanno invitando con sempre maggiore animosità all’odio e alla punizione vendicativa?
Oppure possiamo provare a chiederci se qualcosa non ha funzionato nella circolazione delle informazioni e delle indicazioni di comportamento, e ha facilitato quei comportamenti irresponsabili?
Per essere responsabilizzanti e motivanti le informazioni e le indicazioni devono essere chiare, comprensibili, ma soprattutto traducibili in comportamenti concreti (cosa devo fare
esattamente?), realizzabili ( ho davvero modo di fare ciò che mi chiedono?), sostenibili ( mi è possibile comportarmi in questo modo? Con quale aiuto?) e con obiettivi comprensibili e condivisibili (cosa stiamo cercando di far succedere?)
Le comunicazioni e le indicazioni di comportamento che sono piovute sulla testa di professionisti sanitari e sociali e cittadini da febbraio in poi sono molto lontane dal rispondere a questi requisiti.
Qualche esempio: il 21 gennaio, mentre la preoccupazione delle organizzazioni sanitarie mondiali cominciava a crescere, il ministero della Salute diffondeva l’invito a rimandare i viaggi “non necessari”. Come si traduce in termini di decisione responsabile (parto o non parto?) una indicazione così vaga, e così soggetta a valutazioni personali?
A febbraio, quando la preoccupazione era ormai palpabile ,inizia il ballo delle mascherine: mascherina no, mascherina sì, no perché, sì perché… Sulle porte di alcuni negozi e supermercati, ancora oggi, è affisso il decreto che impone di usare le mascherine solo se si sospetta di essere malati , affiancato da cartelli che vietano l’ingresso a chi non è munito di mascherina.
In fase di lock down, i quesiti di chi si è rivolto al comando dei vigili, al comune o altri “referenti” per avere chiarimenti sull’interpretazione delle regole di circolazione hanno ottenuto la risposta standard “dipende da chi la ferma”. Un invito alla disobbedienza assistita dalla fortuna?
La domanda “cosa dobbiamo fare” che medici di medicina generale, infermieri, operatori sociali hanno rivolto alle autorità sanitarie sulla gestione dei casi sospetti, dei pazienti sintomatici e di chi era venuto a contatto con loro ha ricevuto risposte che nessuno potrebbe definire “chiare, comprensibili e traducibili in comportamenti sostenibili”.
Ne ha scritto
Elena Rubatto, medica di famiglia, lo abbiamo letto e ascoltato nei racconti di amici, colleghi, famigliari che si sono trovati a decidere cosa fare senza indicazioni sufficienti, anzi spesso con indicazioni contradditorie o irrealizzabili.
La cosa si sta ripetendo: ancora sull’uso delle mascherine, obbligatore sì, no, forse a seconda delle scelte delle Regioni. Sull’uso dei guanti di plastica, che
scopriamo essere non solo inutili ma dannosi ma che vengono richiesti tassativamente da cassieri e vigilantes di molti supermercati, e da alcuni proprietari di bar e negozi.
Sulle pratiche di sanificazione, che
Donato Greco su queste stesse pagine definisce “comiche igienistiche”.
Quando il “cosa bisogna fare” riceve risposte ambigue, contraddittorie, o platealmente esagerate e insostenibili, come la sanificazione di tutto ciò che possiamo toccare o sfiorare, i comportamenti che ne conseguono sono sostanzialmente due: l’ansia da pericolo incombente, con conseguente sindrome da capanna (io mi difendo stando tappato in casa) e crescita di atteggiamenti di controllo/sospetto/ aggressività nei confronti dei possibili untori (là fuori tutti fanno di tutto per farci ammalare). E, al contrario, la sottovalutazione del rischio, che in Piemonte si traduce nella frase “esageruma nen”. Dal non esageriamo ai comportamenti irresponsabili il passo è brevissimo.
Quando ciò che accade non ci piace, dovremmo chiederci cosa lo ha reso possibile. A mio avviso, è mancato un coordinamento rigoroso e scientifico delle comunicazioni: la scelta, momento per momento, man mano che la situazione evolveva, del cosa dire e del come dirlo, e la creazione di flussi di comunicazioni ben controllati e affidati a un numero sufficiente di persone, non necessariamente professionisti sanitari, adeguatamente e rapidamente formati allo scopo. Costoso? Non sappiamo ancora quanto ci costerà l’ondata di irresponsabilità che comincia già a spaventarci.
Silvana Quadrino
Psicologa, psicoterapeuta, docente di comunicazione e counselling
21 maggio 2020
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