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Infermieri. Il demansionamento, il Codice e il bene del paziente

di Raffaele Secci

18 APR - Gentile Direttore,
leggo spesso e con molto interesse quanto le colonne del giornale da lei diretto pubblica, soprattutto in tema di professione infermieristica. Essendo infermiere da oltre tre lustri, trovo a volte nuovi stimoli quando non anche nuove argomentazioni che motivano il mio esercizio quotidiano della professione.
Detto questo però, a volte resto interdetto quando leggo certe affermazioni o certe tesi tendenti a riconoscere quale unico colpevole del demansionamento, il così tanto detestato articolo 49 del nostro Codice Deontologico (non codice etico come qualcuno lo nomina).

Forse nel mio percorso professionale e lavorativo ho avuto solo una fortuna immensa per non aver mai incontrato nessun coordinatore, primario o amministratore che mi abbia usato la violenza del demansionamento, o forse, ho solo fatto il mio dovere, attenendomi scrupolosamente al dettato del Codice Deontologico e nello specifico al citato art. 49. Ho sempre segnalato formalmente il disservizio a chi doveva prendere i giusti provvedimenti e ho preteso con le dovute forme, che la soluzione venisse attuata nell’immediatezza a tutela dei diritti del soggetto più debole, il paziente/utente, nei confronti del quale ho sempre sentito l’obbligo di dover assumere posizione di garanzia.

 E’ anche vero però che nell’agire professionale, ho sempre rifuggito compromessi e favoritismi di ogni sorta, e questo mi ha portato fino a oggi a essere uno dei tanti in prima linea, pur possedendo qualche titolo che anche in tempi meno sospetti avrebbe potuto vedermi svolgere altri ruoli.
Ogni giorno mi capita di incontrare colleghi e scambiare con essi opinioni e esperienze, raccolgo le loro lamentele che riguardano indistintamente problematiche puramente di ordine sindacale e solo marginalmente di tipo etico/deontologiche. Quando pongo a questi la domanda se mai hanno agito in modo formale e nelle giuste sedi, ottengo quasi sempre la stessa risposta no, perché devo essere io a espormi?

Riflettendoci bene , mi verrebbe da pensare che forse gran parte di noi infermieri soffre di quella patologia decantata dal Sommo Poeta quando descrive il 3° girone dell’inferno, l’ignavia, figlia della codardia, lasciando che altri sventolino una bandiera alla quale andare appresso senza pur mai schierarsi, forse per timore di perdere qualche effimero privilegio magari non dovuto?

Chiedo scusa per l’espressione forse eccessivamente forte, ma è davvero questo il pensiero che mi sovviene quando poi apprendo che esistono ancora colleghi che si prestano a fare da dattilografi al medico che si rifiuta di utilizzare il pc quando non anche a scrivere le ricette per suo conto, senza entrare poi nel dettaglio dell’accettazione delle prescrizioni telefoniche, o di qualche altro che pur di accaparrarsi qualche ora di straordinario o di prestazione aggiuntiva, si presta a svolgere “mansioni” non espressamente attinenti al profilo dell’infermiere, o ancora chi, pur di non assumersi la responsabilità di governare nel corretto modo attraverso la stesura di protocolli e procedure, l’operato del personale di supporto, riempie le proprie giornate lavorative di attività di cui potrebbe sgravarsi con un semplice atto formale, in ultimo, ma non per importanza, chi pur esercitando la professione da dipendente, in barba alle più elementari norme di rispetto dei colleghi libero professionisti, “arrotondano”, facendo fuori dal posto di lavoro qualche prelievo, qualche terapia infusionale, qualche sostituzione di catetere vescicale, qualche medicazione.

Lungi da me l’idea di scatenare polemiche e diatribe che poi sortirebbero solo il risultato di prestare il fianco a chi infermiere non è e manca di rapporto diretto vissuto con il paziente. Quanto detto sopra, vuole essere solo uno spunto di riflessione per il nostro agire quotidiano da professionisti. Poi cambiamo pure il Codice deontologico, modifichiamo o abroghiamo l’art. 49, ma facciamolo portando la discussione e i fatti concreti nelle sedi deputate a questo, in modo democratico e non lasciamo che altri facciano il nostro lavoro strumentalizzando e mettendo a rischio ciò che deve essere il fine ultimo del nostro agire professionale, il bene del paziente.

Raffaele Secci
Infermiere, Oristano


18 aprile 2016
© Riproduzione riservata

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