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I tre gioni di permesso per assistere persone disabili non sono equiparabili alle ferie. Ma in ogni caso servono anche per far “riposare” chi ne usufruisce. La sentenza della Cassazione

di Luca Benci

Questo il senso di una recente sentenza che specifica come durante i tre giorni di permesso il lavoratore non sia comunque tenuto a prestare assistenza per tutte le ore che avrebbe dovuto essere al lavoro. Per la Corte infatti la finalità dei tre giorni di permesso è si quella di garantire una maggiore continuità assistenziale, ma anche quella di permettere al lavoratore di ritagliarsi un “breve spazio di tempo” per provvedere ai propri bisogni. LA SENTENZA

04 GEN - La Corte di Cassazione reinterviene (II sezione penale, sentenza 23 dicembre 2016, n. 3209) sulla natura dei permessi ex legge 104/1992 consistenti nel diritto del lavoratore pubblico o privato “che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado” a determinate condizioni di fruire “di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa”.

Il caso nasce da un’anomala modalità di fruizione dei tre giorni di permesso – nella specie viaggio all’estero con parenti (senza disabile) – che ha portato la lavoratrice alla condanna per truffa ex art. 640 codice penale.

L’interpretazione data dalla lavoratrice era relativa alla natura dei giorni di permesso retribuito, che a suo dire potevano essere fruiti come “tre giorni feriali di libertà”, con la finalità di consentire il recupero delle energie psico-fisiche del lavoratore stesso. La Corte di Cassazione non ha aderito a questa impostazione ma ha fatto alcune importanti considerazioni proprio sulla natura dei tre giorni di permesso.
 
Richiamando la giurisprudenza della Corte costituzionale, la Cassazione specifica che la norma sui tre giorni di permesso ha una duplice finalità:
a) consentire al lavoratore di prestare la propria assistenza con ancora maggiore continuità;
b) consentire al lavoratore, che “con abnegazione dedica tutto il suo tempo al famigliare handicappato, di ritagliarsi un breve spazio di tempo per provvedere ai propri bisogni ed esigenze personali”.

Le finalità dei tre giorni di permesso è quindi quella di garantire da un lato una maggior continuità assistenziale – resa possibile dal tempo libero dal lavoro – e dall’altro deve permettere al lavoratore di ritagliarsi un “breve spazio di tempo” per provvedere ai propri bisogni.
Non è però obbligatorio prestare assistenza proprio nelle ore in cui il lavoratore doveva prestare la propria attività lavorativa. Sottolinea, infatti, la Corte che in nessuna parte della legge “si evince che l’attività di assistenza deve essere prestata proprio nelle ore in cui il lavoratore avrebbe dovuto svolgere la propria attività lavorativa”.

L’assistenza non deve, quindi, essere necessariamente prestata nelle ore presuntivamente lavorative, ma il lavoratore deve essere libero “di graduare l’assistenza al parente secondo orari e modalità flessibili che tengano conto, in primis, delle esigenze dell’handicappato” dato che questa rigidità può danneggiare il disabile stesso.

In altri termini, continua la Cassazione, “i permessi servono a chi svolge quel gravoso compito di assistenza a persone handicappate, di poter svolgere un minimo di vita sociale, e cioè di praticare quelle attività che non sono possibili quando l’intera giornata è dedicata prima al lavoro e, poi, all’assistenza”. Non si richiede quindi un tempo totalizzante di assistenza, ma anche tempi da ritagliare all’interno della giornata per poter fruire di periodi di riposo personale, ma comunque, con modalità tali da permettere l’assistenza richiesta cosa che, nel caso di specie, non è avvenuta visto che la lavoratrice si era recata all’estero.

In conclusione i tre giorni di permesso, ex legge 104, non sono da considerarsi, stante la diversa natura e finalità, assimilabili a giorni di ferie perché devono contemperare la finalità assistenziali pur non essendo richiesto l’impegno totalizzante. Il principio di diritto enunciato dalla stessa Corte stabilisce che tali permessi sono “un’agevolazione che il legislatore ha concesso a chi si è fatto carico di un gravoso compito, di poter svolgere l’assistenza in modo meno pressante e, quindi, in modo da potersi ritagliare in quei giorni in cui non è obbligato a recarsi al lavoro, delle ore da poter dedicare esclusivamente alla propria persona”.

La Corte non ha specificato altro sul termine “assistenza”. Vi è da domandarsi se con tale termine si intenda la diretta assistenza sul paziente – intendendosi per tale quella relativa al soddisfacimento dei bisogni di assistenza tendenti a superare la mancanza di autonomia del disabile nelle attività di vita in senso stretto – oppure, come sembra più opportuno, un’assistenza in senso lato comprendendosi tutte quelle attività che, comunque, sono precluse al disabile beneficiario del tempo libero del parente/affine o coniuge/convivente come la gestione ordinaria delle attività di vita più allargate come il disbrigo di pratiche presso uffici, istituzioni ecc. E’ realmente difficile non comprendere tutti i bisogni di vita del disabile vista la ratio della norma complessiva della legge 104.

Ricordiamo, inoltre, la recente sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato la illegittimità dell’art. 33, comma 3, nella parte in cui non includeva i conviventi more uxorio nel panorama dei beneficiari dei permessi.
 
Un’altra pagina quindi è stata scritta sulla fruizione dei permessi della legge 104 che non sono stati esenti da abusi nelle loro modalità di godimento nella storia ultraventennale della legge. Le modalità di controllo non possono, però, essere negatrici del diritto e correttamente la Corte di Cassazione esorta a interpretare questa parte della legge cum grano salis.
 
Luca Benci
Giurista 


04 gennaio 2017
© Riproduzione riservata

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