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Pronto soccorso. “Il problema sono i ritardi nell’assistenza territoriale”. La proposta Ipasvi

di Barbara Mangiacavalli

È fuori dell’ospedale che vanno organizzate le strutture adatte per limitare accessi e ricoveri. Dagli ospedali di comunità alla farmacia dei servizi. E per farlo basterebbe applicare le norme e gli atti programmatori esistenti. La presa in carico degli assistiti, territoriale e ospedaliera, deve prevedere un modello che si caratterizzi per la capacità di porre il paziente al centro del percorso di cura, puntando all’integrazione e alla personalizzazione dell’assistenza 

04 GEN - La riduzione dei posti letto negli ospedali e la contemporanea assenza di un’organizzazione valida sul territorio hanno dimostrato nel periodo dell’influenza annuale e in concomitanza con le festività natalizie (ma è così anche ad esempio durante l’estate e in molti altri periodi dell’anno), l’enorme difficoltà ricettiva dei pronto soccorso.
 
Il problema primario è nel fatto che un malato, magari anche cronico, che ha necessità di cure, per soddisfare i propri bisogni, non trovando nulla fuori dell’ospedale, ha come unico riferimento il pronto soccorso.
 
Se su circa 20,5 milioni di accessi l’anno al pronto soccorso solo il 15% è ricoverato, vuol dire che nell’85% dei casi (oltre 17 milioni di accessi) ci si trova difronte a una richiesta che con molta probabilità e in alte percentuali (almeno il 50%) avrebbe anche potuto avere una soluzione in strutture territoriali opportunamente organizzate, ma oggi del tutto carenti.
 
E che il problema sia legato proprio alle ristrettezze organizzative si capisce anche dai dati dell’Annuario statistico del ministero della Salute. La percentuale di ricoveri (e quindi di utilizzo dell’ospedale perché carente il territorio e, comunque, di casi più gravi perché assente un filtro capace di intervenire nelle prime fasi del bisogno sanitario) dopo l’accesso al pronto soccorso è in media in Italia dell’8,2%.
 
Al di sopra di questo valore ci sono praticamente tutte le Regioni in piano di rientro e commissariate (tranne il Lazio), con valori che in Puglia raggiungono il 22% di ricoveri e la Liguria che essendo quella più “vecchia” ha esigenze maggiori verso la popolazione anziana e non autosufficiente. Al di sotto invece le altre Regioni (al minimo c’è il Friuli Venezia Giulia con il 3,1%), dove pur non in modo spesso ottimale, ma l’organizzazione territoriale è più presente. 
 
Se si potesse poi evitare il 10% circa di ricoveri ripetuti (quelli cioè che nella maggior parte dei casi sono legati a una mancata assistenza post-dimissioni), si potrebbero risparmiare oltre ai problemi di salute e qualità di vita dei pazienti, oltre un miliardo di euro di spesa, calcolato in base agli ultimi rapporti sulle schede di dimissione ospedaliera del ministero della Salute.
 
La presa in carico degli assistiti, territoriale e ospedaliera, deve prevedere un modello che si caratterizzi per la capacità di porre il paziente al centro del percorso di cura, puntando all’integrazione e alla personalizzazione dell’assistenza. E’, infatti, particolarmente funzionale allo sviluppo e all’utilizzo dei percorsi clinico assistenziali integrati, la traduzione locale delle linee guida nella pratica clinica, cosa che pare rispondere meglio non solo ai bisogni assistenziali di pazienti sempre più anziani e affetti da complesse polipatologie, ma anche alla necessaria integrazione multidisciplinare e multiprofessionale.
 
Secondo le esperienze regionali un sistema di questo tipo potrebbe anche garantire iniziative di prevenzione e promozione della salute e dei corretti stili di vita per incidere precocemente sui determinanti di salute, per ridurre sia l’incidenza delle malattie croniche, sia la progressione della malattia già esistente, per potenziare a livello territoriale la presa in carico delle dimissioni difficili, attraverso l’impegno di tutti i professionisti coinvolti.
 
Il paradosso è che il modello già c’è, è stato già disegnato ed è quello contenuto sia nel Piano nazionale cronicità che per forza di cose punta al territorio, ma anche dagli stessi nuovi Leache stanno per diventare operativi. Il problema è l’attuazione rallentata da modelli ancora abbarbicati al passato e spesso anche a una visione miope e antica della multiprofessionalità da parte di alcune categorie professionali.
 
Secondo l’Ipasvi, in ospedale l’assistenza dovrebbe avvenire in base a diversi livelli di complessità assistenziale ed intensità delle cure: un livello di intensità alta che comprende le degenze intensive e sub-intensive; un livello di intensità media che comprende le degenze per aree funzionali (area medica, chirurgica, materno infantile) e un livello di intensità bassa dedicata a pazienti post acuti.
 
Il medico, a cui è affidata la responsabilità clinica del paziente, concorre alla cura secondo le proprie competenze e l’infermiere, a cui è affidata la gestione assistenziale per tutto il tempo del ricovero, valorizza appieno la propria capacità professionale. Le figure chiave che la erogheranno saranno quella del tutor medico e del team infermieristico dedicato.
 
Sul territorio, dei pazienti si occuperà un team multiprofessionale adeguatamente formato e che utilizzerà i sistemi di comunicazione interpersonale, compresi gli strumenti della comunicazione a distanza (ICT), di cui dovrà essere dotato. Nel team, almeno uno degli infermieri svolge la funzione di “care management”, organizza il richiamo periodico dei pazienti, mantiene il collegamento diretto con il “tutor” ospedaliero, organizza la partecipazione a programmi educativi di gruppo.
 
Gli obiettivi del territorio sono chiari:ridurre il ricorso al pronto soccorso e i ricoveri impropri e anche quelli che, seppure appropriati, originano da un carente modello erogativo di continuità di assistenza e dall’insorgenza di complicanze croniche; prevenire le complicanze che necessitano di ricovero e, in ogni caso, mettere in atto tutte le misure di riconoscimento precoce delle complicanze. 
 
E fuori dell’ospedale vanno organizzate le strutture adatte per limitare ancora una volta accessi e ricoveri. Accanto all’ospedale di comunità che consente l'assistenza alla persona e l'esecuzione di procedure clinico-assistenziali a media/bassa intensità e breve durata e all’ambulatorio a gestione infermieristica che consente   di   accogliere   pazienti   affetti   da  patologie croniche in fase di stabilizzazione e favorisce le dimissioni  protette, va definito il ruolo chiave degli infermieri nell’assistenza domiciliare integrata, in quella presso le strutture residenziali e i centri diurni dove sia i trattamenti intensivi, di cura e mantenimento funzionale, sia quelli estensivi di cura e recupero funzionale a persone non autosufficienti con patologie che richiedono elevata tutela sanitaria con continuità assistenziale, richiedono la presenza infermieristica sulle 24 ore. In questi tipi di assistenza poi potrebbero essere utilizzati anche i nostri infermieri liberi professionisti: sono circa 40mila disseminati su tutto il territorio nazionale, da poter utilizzare ad esempio grazie a modelli organizzativi innovativi e convenzioni ad hoc.
 
Accanto alle strutture intermedie poi ce ne sono altre, che per lo più restano ancora sulla carta, come ad esempio la farmacia dei servizi. Non voglio entrare nel merito dei vantaggi assistenziali evidenti, ma basterebbe pensare a quale snellimento enorme ad esempio per le liste di attesa ne potrebbe derivare. Il cittadino sa bene dov’è la sua farmacia di riferimento e spesso vi si rivolge come prima istanza non avendo altre strutture organizzate in un significativo range temporale sul territorio.
 
Si tratta di applicare le norme già in vigore  che prevedono nella farmacia dei servizi, spazi dedicati a prestazioni che possono essere offerti dagli infermieri. Gli infermieri liberi professionisti rappresentano sicuramente una risorsa importante in questo senso che può essere gestita sia dedicando, appunto, spazi ad hoc all’interno delle farmacie, sia prevedendo, grazie a nuovi sistemi informatici, servizi di contatto diretto con singoli o con strutture infermieristiche dove i professionisti possono organizzarsi in team di assistenza.
 
Ed è anche per questo che tra le nostre prossime azioni abbiamo previsto un accreditamento selettivo dei professionisti: una garanzia in più per i cittadini e per il sistema.
 
Barbara Mangiacavalli
Presidente della Federazione nazionale dei Collegi Ipasvi

04 gennaio 2017
© Riproduzione riservata

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