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Il lavoro è l’architrave su cui poggia tutto il Ssn. Che succede se inizia a cedere?

di Ivan Cavicchi

Il lavoro sino ad ora ha retto il sistema nel suo complesso nonostante tutto. Ma ha subito e continua a subire limitazioni su tutti fronti. Ed è lecito temere che se quest’architrave dovesse cedere si potrebbero determinare delle discontinuità, quelle che i matematici definiscono  “catastrofi”. Che fare quindi?

18 DIC - Domani  si svolgerà  a Torino un convegno di grande interesse organizzato dall’Anaao Assomed: “Il mestiere delle cure. La trasformazione dei luoghi di lavoro e del lavoro in Sanità. In questo convegno avrei dovuto e voluto discutere  di quel particolare conflitto che, a quanto pare, anche la legge di stabilità intende confermare e che in sanità contrappone  il costo del lavoro al suo valore. Mio malgrado non potrò esserci  per cui mi limiterò a scrivere qualche riflessione.
 
Con questo convegno l’Anaoo  ha voluto esprimere e  raccogliere  un allarme, che riguarda il lavoro medico sanitario in tutte le sue accezioni  ma anche cominciare a definire  le contromisure necessarie perché  l’allarme diventi sempre più improbabile. Se consideriamo il lavoro come se fosse un architrave allora dobbiamo dire che il lavoro sino ad ora ha retto il sistema nel suo complesso nonostante tutto. Tale architrave a sue spese ha compensato come ha potuto  e non senza qualche cedimento e qualche danno collaterale, tutti i tipi di limitazioni ai quali sono stati sino ad ora sottoposti i servizi. Il lavoro  ha subito  e continua a subire  limitazioni sugli  organici, alla sua autonomia, ai suoi valori retributivi, ai  suoi valori deontologici, demansionamenti, burocratizzazioni, precarizzazione, disoccupazione, conflitti strumentali di competenze, ecc. 
 
Ma se l’architrave cede perché sovraccaricato di  “op-pressioni” allora è lecito temere che il suo cedimento potrebbe determinare delle discontinuità, quelle che i matematici definiscono  “catastrofi”. La “catastrofe” quindi  non sarebbe  il crollo della casa ma un impoverimento  del lavoro quale   “causa necessaria” a garantire  con le prassi professionali la costruzione concreta dei  diritti  dei malati. I diritti in sanità non sono fatti d’aria ma sono beni sostanziali  fatti  da professioni organizzate in servizi per  curare e assistere. Se attraverso il lavoro  si colpiscono le prassi  professionali è attraverso le prassi che si colpiscono i diritti, quindi una “deprivazione” che causa una “depravazione” . Lacan ha scritto  che l’ansia è l’unica emozione  che non mente  perché  testimonia la vicinanza con la realtà. La mia “ansia sincera”  è  che se  il lavoro nel tempo  non riuscirà   più a reggere la deprivazione della sanità  i diritti saranno silenziosamente  sopraffatti. A confermare la mia ansia  sono proprio i continui allarmi di Anaoo e soprattutto di “Anaoo giovani “che  in modo quasi martellante ci prefigurano scenari circa il mercato del lavoro dei medici, molto seri che sbaglieremmo a sottovalutare.
 
Non ultimo quello  sulla  legge di stabilità, dal momento che si è programmato fino al 2020 all’insegna della  flessibilitàuna costante riduzione del personale dei servizi.  L’Anaoo non esita a parlare  di “attacco gravissimo  all’occupazione del personale del Ssn”. A questo si deve aggiungere  l’analisi spietata  e lucida della Fnomceo sulla crisi del sistema formativo medico. Se il lavoro lo consideriamo quale principale “capitale” del sistema pubblico  e se  il lavoro  si trova di fronte a politiche  che lo stanno  svalutando in tutti  modi, allora  si comprende come la sua debolezza interna   sul piano della qualità professionale   e la sua precarietà  esterna sul piano delle quantità professionali, diventi un problema politico di primaria grandezza. Se questa debolezza e questa precarietà non sono  recuperate in tempo il rischio è che   si affermi  una devastante controriforma. Il lavoro suo malgrado oggi si trova  a svolgere  la funzione di difendere il sistema pubblico dalla sua possibile disgregazione.
 
E’ da questa “ansia sincera” che in questi anni sono nate le mie proposte, quelle che spesso sono considerate non normali  tesi riformatrici di qualcuno che in vario modo e a vario titolo si occupa da anni di sanità pubblica, ma  il più delle volte delle “provocazioni” un po’ visionarie di chi si prende il lusso  di trascendere con le sue teorie la  realtà puzzolente  nella quale viviamo. In questa  realtà ci sto dentro  fino al collo come voi e anch’io sento la puzza che sente l’Anaoo, la Fnomceo e l’intero popolo della sanità.  Ho già scritto  su questo giornale che  la speranza di un pensatore è quella di far pensare, convinto come sono che pensare sia il primo passo per fare. Ho anche aggiunto che nella situazione in cui versa il nostro lavoro , senza un pensiero riformatore si può stare  con i piedi a terra  “senza sapere cosa fare   perché non si sa  cosa pensare di fare”.Per me  dobbiamo prenderci la responsabilità di pensare cosa fare, cioè di tirare fuori un’altra idea di lavoro che rispetto alla realtà che lo sta svalutando sia  sufficientemente  “sovversiva” da non farsi svalutare . Chiarisco  che  “sovversivo”  per me è parola diversa da  “eversivo”. Per me si tratta di  mettere a punto una idea  di lavoro che rifiuta la sua svalutazione  senza rifiutare  la realtà in cui esso si trova quindi che si apre  al rinnovamento profondo e radicale per rispondere in modo riformatore alle sfide del nostro tempo. Oggi  dove tutti si dichiarano riformatori ,niente è più sovversivo di un vero pensiero riformatore.
 
Le mie proposte sono note(“autore”,“shareholder”,reticolo professionale ,professional agreement,  ecc)e non le ripeterò, Mi limito a ricordare che sono anni che  da una parte  lavoro sul ripensamento della medicina  per rispondere alla crisi della formazione di cui parla la Fnomceo e dall’altra  sul ripensamento del concetto  di lavoro. Oggi mi limiterei  a ribadire circa la questione del lavoro  le tre idee di fondo del mio ragionamento:
 
· una proposta “sovversiva”   circa il lavoro dovrebbe avere come scopo quello di produrre  un suo  nuovo valore aggiunto che risponda alle esigenze dei diritti  delle persone  e  a quelle non meno importanti della spesa pubblica ma anche a quello ancor non  meno importanti delle legittime ambizioni di chi lavora a partire dal salario. Oggi è irrealistico  rivendicare salario, (frattaglie a parte), se la richiesta  si ripercuote semplicemente  sulla crescita della spesa pubblica senza alcuna contropartita .. se non vogliamo morire di blocchi  salariali l’unica strada realistica è lavorare sulle contropartite da offrire alla spesa pubblica;
· per accrescere il valore aggiunto del lavoro si tratta di usare il lavoro come il principale motore per una seria spending review  bottom/up  cioè per liberare risorse  superando regressività culturali, sprechi, diseconomie, anti economie;
· per fare ciò  bisogna far leva sullo scambio autonomia/ responsabilità/ esiti  quindi andare oltre lo statuto giuridico del lavoro dipendente o convenzionato e “inventare” una nuova specie di “operatore azionista” per il quale il lavoro è un capitale da valorizzare il più possibile;
· il lavoro quale capitale sarà retribuito attraverso dei professional agreement cioè contrattando delle  transazioni tra professione e management.
 
A questo punto a me interessa porre un domanda alla quale sino ad ora nessuno ha saputo dare una risposta  e dare una risposta. La domanda è: come dare in questa realtà sociale e finanziaria  un prezzo al nostro lavoro che da una  parte per sua natura  non avrebbe  un  prezzo  perché esso ha eticamente  e economicamente un valore incommensurabile  dal momento che fa sopravvivere le persone alle loro malattie; e dall’altra parte è comunque deprezzato dalle politiche restrittive in atto che lo riducono ad un puro costo da comprimere?
 
Per me quindi si tratta di  trovare una mediazione tra valore  del lavoro e costo del lavoro, mediazione a mio parere  impossibile  da trovarsi  a lavoro  e a strumenti contrattuali invarianti, men che mai senza includere nel suo valore aggiunto  i problemi della spesa. Le politiche del governo  contrattualmente vanno quindi sfidate sul loro terreno che è quello della crescita, della  riqualificazione della spesa pubblica, del rigore e del risanamento e della produzione di ricchezza.  Alla domanda “perché il nostro lavoro è  un valore”  e non solo un costo, rispondo  “perché il nostro lavoro guarisce le malattie delle persone e per quota parte quelle del paese”. In questa situazione economica se il nostro  lavoro si limitasse a guarire solo le malattie delle persone in un paese che in nome della sostenibilità antepone il limite di spesa  al diritto alla salute, sarebbe un costo relativamente insostenibile  per cui anche per questo governo, sarebbe giustificato ridurlo continuando a bloccare i salari e il turn over e a depotenziare i servizi. Ma se il lavoro  fosse anche una soluzione per i problemi  finanziari  della sanità/paese  il discorso cambierebbe e non avrebbe più senso bloccarlo e impoverirlo.
 
Il vero guaio di questa proposta non è il suo grado di fattibilità e di plausibilità che per quello che mi riguarda  è tecnicamente del tutto fattibile, ma è quello da me  definito  il problema  del “riformista che non c’è”. Le Regioni  sono arrivate al paradosso di proporre al governo una riduzione del Fsn ,esse non sanno fare altro che tassare i cittadini e tagliare sul lavoro pur di non mettere le mani nelle loro diseconomie, abbiamo aziende concepite come se i lavoratori fossero delle lavatrici programmabili a piacimento, abbiamo un ministero della salute politicamente e culturalmente inconsistente e oltre a ciò abbiamo i nostri limiti ,le nostre invarianze ,le nostre abitudini cognitive...pur essendo orfani del famoso  consociativismo continuiamo  a coltivare ma ormai senza interlocutori  i nostri vecchi vizi consociativi. Quindi il problema politico  è che pur disponendo di una proposta riformatrice ci manca il riformatore con il quale negoziarla. Ho visto nei giorni seguenti scatenarsi un putiferio di interventi sull’ex art. 22 del Patto per la Salute al quale mi pare che l’Anaao si sia pudicamente sottratta ..e che da la misura della natura prevalentemente  burocratica del nostro sindacalismo...che non si accorge  di  fare come quel famoso cameriere che mentre la nave affondava  continuava a lucidare gli ottoni.
 
Che fare quindi? Prima di tutto si tratta di prendere coscienza della posta in gioco ,cioè di non tirare a campare, di capire che il gioco  definito “contrattazione”  è cambiato, e che dobbiamo attrezzarci  costruendo piano piano un pensiero riformatore  per costruire un contesto il più favorevole ad una nuova proposta  di  lavoro. Rilancio quindi la mia idea di disobbedienza deontologica perché credo che in sanità sia in atto quello che Zizek ha definito “l’addomesticamento etico” cioè un etica che per essere surrettiziamente responsabile  ormai è rassegnata a subire delle esclusioni valoriali.
 
La  professione medica  non può incorporare  semplicemente nel proprio codice  le logiche economicistiche di una stupida quanto ottusa  politica sanitaria,  perché ha il dovere di garantire con una proposta di altra deontologia   una medicina eticamente non addomesticabile. Infine  di usarci in modo diverso...siamo tanti ma dobbiamo organizzarci  e mobilitarci in altri modi per avere migliori e più efficaci relazioni con il mondo.
 
Ivan Cavicchi

18 dicembre 2014
© Riproduzione riservata


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