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Coronavirus e Ivg. I ginecologi sollecitano maggior ricorso all’aborto farmacologico: “Un aiuto per diminuire i rischi di contagio”


Un impiego maggiormente estensivo della Ru486, finora relegata ad un ruolo marginale, permetterebbe, in particolare in questa fase di pandemia, di decongestionare gli ospedali, alleggerire l’impegno degli anestesisti e l’occupazione delle sale operatorie. Da rivedere per Sigo, Aogoi e Augui anche alcuni aspetti delle procedure vigenti
 

08 APR - Le società scientifiche di Ginecologia e Ostetricia si dichiarano favorevoli a una maggiore diffusione dell’aborto farmacologico, a tutela della salute e dei diritti delle donne, che rischiano di essere negati a causa dell’emergenza sanitaria in corso. Un impiego maggiormente estensivo dell’aborto farmacologico, finora relegato ad un ruolo marginale, permetterebbe, in particolare in questa fase di pandemia, di decongestionare gli ospedali, alleggerire l’impegno degli anestesisti e l’occupazione delle sale operatorie. Una decisione in linea peraltro anche con il decreto Ministeriale del 3 marzo scorso, che ha ribadito che tra le attività indifferibili, insieme al Percorso nascita, deve essere tutelato e garantito il percorso dell’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg).

“In questo momento storico, in cui il Governo e tutta la società si trovano a gestire l’emergenza da Covid-19 – dichiara Antonio Chiantera, Presidente della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (Sigo) – riteniamo doveroso tutelare la salute e i diritti delle donne, attuando le procedure ritenute giustamente indifferibili, e al contempo ponendo in essere tutte le misure utili a contenere e contrastare il diffondersi della pandemia”.

“Durante questa fase di emergenza sanitaria – spiega Nicola Colacurci, Presidente dell’Associazione Ginecologi Universitari Italiani (Augui) – il percorso tradizionale dell’aborto chirurgico, che prevede numerosi accessi ambulatoriali, non solo per certificazione e datazione, ma anche per le indagini pre-operatorie oltre all’accesso per l’esecuzione della procedura, espone la donna a un numero eccessivo di contatti con le strutture sanitarie, che sicuramente non contribuiscono alla riduzione del rischio di contagio”.

Inoltre, le maggiori difficoltà che le donne incontrano ad accedere ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza, rischiano di determinare il superamento dei limiti temporali previsti dalla Legge 194/78, rischio maggiore per le donne che vivono in condizioni di alta marginalità e vulnerabilità, quali violenza domestica, condizioni precarie di salute o positività a Covid-19.

Affinché si realizzi una piena applicazione della procedura farmacologica - che può essere utilizzata anche in caso di diagnosi di aborto interno - gli esperti sottolineano la necessità di rivedere alcuni aspetti delle procedure vigenti, dichiarandosi favorevoli a:
• spostare il limite del trattamento da 7 a 9 settimane;
• eliminare la raccomandazione del ricovero in regime ordinario dal momento della somministrazione del mifepristone a momento dell’espulsione;
• introdurre anche il regime ambulatoriale che prevede un unico passaggio nell’ambulatorio ospedaliero o in consultorio, con l’assunzione del mifepristone, e la somministrazione a domicilio delle prostaglandine, procedura già in uso nella maggior parte dei Paesi europei;
• prevedere una procedura totalmente da remoto, monitorizzata da servizi di telemedicina, come è già avvenuto in Francia e nel Regno Unito, in via transitoria, in situazione di particolare difficoltà e in relazione all’attuale stato di emergenza.

“Una riorganizzazione adeguata che persegue l’obiettivo di facilitare e de-ospedalizzare l’aborto, prevedendo un maggior coinvolgimento degli ambulatori – conclude Elsa Viora, Presidente dell’Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri (Aogoi) – può rappresentare una soluzione efficace sia per le donne, tutelandone un diritto sancito dalla legge italiana, sia per decongestionare gli ospedali, tanto più in questo momento di emergenza”.

08 aprile 2020
© Riproduzione riservata

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