Lettere al Direttore
Perché i medici del Ssn se ne vanno e non si trovano: la mia storia
di Luisanna ColaGentile Direttore,
oggi è il mio ultimo giorno di lavoro di dipendente pubblico come Direttore di Struttura Complessa presso una azienda sanitaria territoriale marchigiana. Ho rassegnato le mie dimissioni volontarie. Una decisione ponderata e sofferta. Il mio Direttore sulla stampa le ha derubricate come dimissioni per motivi personali (come se esistessero scelte impersonali!). Da una parte si è detto che la politica aveva lavorato male e dall’altra si è asserito che la scelta è legata a più lauti guadagni nel privato, con meno responsabilità. In due giorni si è spenta la polemica, probabilmente distratti da una nuova.
Già un anno fa avevo lasciato la carica di Direttore di Dipartimento Emergenza rinunciando ad un netto di 1000 euro in busta paga (quella attratta da lauti guadagni…). Io, aziendalista convinta e fedele, mi sono ritrovata in una crisi profonda della quale non trovavo il bandolo. Mi sono imbattuta casualmente nel libro di Francesca Coin Le grandi dimissioni (sottotitolo: Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita) che mi ha spinta ad una serie di riflessioni che vorrei condividere. Le riflessioni si concentrano soprattutto sul personale medico ospedaliero, perché è il ruolo che conosco meglio, ma possono essere estese a tutti i professionisti sanitari.
Ecco cosa ci dice il libro. Dilaga un nuovo rifiuto del lavoro, sintomo di una rottura epocale. E il sintomo della fine dell’epoca in cui regnava la speranza che il lavoro consentisse di realizzare i nostri sogni di emancipazione, mobilità sociale e riconoscimento. In cui si pensava che il lavoro fosse parte di un sistema virtuoso che salva il mondo dalla fame e dalla povertà. Quell’epoca è finita. Il sistema in cui viviamo è rotto e in questo contesto spesso chi abbandona il lavoro non fa perché può permetterselo. Lo fa per sopravvivere. La frase più spesso pronunciata in chi vuole licenziarsi è: “Non riesco neanche a…”.
Dalla generazione nata nel 1965 in poi c’è stata una svolta epocale mai registrata prima. Le generazioni future, a parità di tipo di lavoro, hanno iniziato a guadagnare meno delle precedenti. Oggi una famiglia composta da due medici può aspirare ad un terzo, massimo alla metà delle promesse di guadagno dei genitori con lo stesso lavoro. Un medico degli anni 50-60 viveva con la sua famiglia una vita agiata e riusciva a comprare una seconda casa per le vacanze o a garantire un ottimo tenore di vita alla sua famiglia. Non è più così. Senza promesse di sviluppo si perde la spinta ad una professione sempre più problematica.
Ma oggi il lavoro medico non è più appetibile anche per altri motivi, trattamento economico a parte. Il problema della violenza sul personale sanitario è in crescita. Gli ambiti dove le violenze sono più frequenti sono i Dipartimenti di Emergenza, Pediatria e Chirurgia, non a caso i meno appetibili per chi deve scegliere una specialità. Quella medica è l’unica professione al mondo sottoposta a tre tribunali: un tribunale aziendale, nel proprio ospedale; un tribunale ordinistico, che è quello professionale; un tribunale civile e penale, che è quello della giustizia ordinaria.
In più la qualità del lavoro è pessima: lo smantellamento del territorio costringe i pochi medici di pronto soccorso a vedere anche 100 pazienti a turno, e la mancanza di alcune figure specialistiche (Pronto soccorso, Anestesia, Pediatria, Chirurgia) obbliga ad orari che vanno ben oltre le 38 ore settimanali, con retribuzioni “a prestazione aggiuntiva” pari al lavoro ordinario.
In questo contesto si inserisce un quarto tribunale, forse quello più pesante: il tribunale del popolo. Manca in Italia una vera consapevolezza di quanto statuito dall’art. 2 della Costituzione italiana, laddove si richiede ai cittadini “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” ivi compreso l’obbligo di mantenersi in buona salute per non gravare sul SSN e contribuire col proprio lavoro al sostentamento dello Stato. Manca una cultura di protezione della propria sanità, un orgoglio a far sì che funzioni, una responsabilità a trattarlo come un ambiente fragile e prezioso. Eppure la sanità è un bene di tutti e le condizioni di lavoro, gli affollamenti, i ritardi di presa in carico, le liste di attesa, non sono responsabilità dell’ultimo lavoratore. Eppure i sanitari in corsia andrebbero protetti, non basta che a mobilitarsi sia solo chi lavora nel settore.
La sanità pubblica riguarda tutti, e proteggerla è una lotta fondamentale per tutta la società. Quando il SSN perde un operatore sanitario per dimissioni volontarie, non ci si può appellare al tutti utili e nessuno indispensabile, perché i sanitari che svolgono professioni di servizio, sono lavoratrici e lavoratori essenziali, che faticano giorno e notte per curare, accudire, alleviare, consolare e tenere in vita il resto della società senza un adeguato riconoscimento economico e sociale. Per non parlare della perdita di competenze! Se la Cittadinanza non si attiva da cittadini si diventa sudditi. Come sempre ci viene in soccorso la letteratura (ah la coltura, la scuola…): in questo caso Manzoni. Carestia, guerra e conseguente aumento della tassa sulla farina fanno lievitare il prezzo del pane. E il popolo suddito, dinanzi al cancelliere che impone ai fornai di abbassare il costo del pane (scelta demagogica), se la prende con i fornai. Imputa ai fornai il non aver da mangiare. Quando un popolo si fa suddito invece che cittadino, succedono fatti analoghi in tutti i campi. In quello della sanità ne sono un esempio la violenza sugli operatori sanitari e la campagna denigratoria ormai ultradecennale al grido di “Malasanità”.
A completare il quadro aggiungiamo i tagli dell’organico con il mancato turnover, l’uso estensivo di contratti precari, l’aumento dei carichi di lavoro senza controllo e una cultura antisindacale, trasversale al mondo del lavoro. Se teniamo conto di tutto questo, tornando a Le grandi dimissioni, possiamo capire perché non solo lascia la sanità pubblica chi può, ma anche chi non ne può più. Infatti, se dovessimo basarci sui dati degli anni passati, nel 2024 possiamo stimare in 7000 i medici che hanno lasciato le corsie degli ospedali pubblici. Come se non bastasse al fronte “uscite” si affianca la perdita di attrattività per la sanità pubblica con molte borse di studio per le specializzazioni più critiche (quelle che ho nominato prima: Pronto soccorso, Anestesia, Pediatria, Chirurgia) che vanno deserte.
Azioni di miglioramento sono possibili, ma solo se la politica le vuole, come mi pare dimostri la riforma della Ministra del Lavoro Yolanda Diaz in Spagna: salari più alti, organici aumentati, contrasto al lavoro sommerso, introduzione di nuovi servizi per l’infanzia e abolizione di tutte le forme di lavoro gratuito come l’accumulo di orario non retribuito.
Pochi giorni fa il TG1, organo di informazione che più governativo di così non si può, in prima serata ha dedicato un servizio di 8 minuti ai vantaggi economici di andare in Croazia a curarsi i denti. Se fosse questa la filosofia che ispira le manovre governative di miglioramento del Ssn, mi verrebbe da augurare “buona salute a tutti” come unico rimedio alla situazione attuale. Ma non voglio pensar male.
Una buona Sanità ha bisogno di una eccellente Società
Luisanna Cola
Medico specialista in Anestesia e Rianimazione, Fermo