In situazioni di emergenza non c’è posto per la bioetica?
Anni fa mia madre ebbe un improvviso malore e per questo dopo essere passata per il pronto soccorso fu ricoverata in ospedale. Sembrava una cosa di poco conto ed invece nel pomeriggio la situazione è improvvisamente peggiorata e alla sera abbiamo visto arrivare gli operatori sanitari di turno con tutta la strumentazione necessaria per procedere all’intubazione.
Chiedemmo di aspettare un momento: gli operatori ci diedero qualche minuto ma dovevamo decidere in fretta, anche se secondo loro ormai non avevamo più niente da decidere perché se non lo intubavano subito sarebbe morta. Ricordo ancora quei lunghi minuti il corridoio del reparto di pneumologia del Policlinico di Roma, con mio padre seduto da una parte con la testa tra le mani che non voleva assecondare nessuna scelta ed io e mia sorella che ragionavamo su cosa fare provando ad immaginare, in quella situazione tragica, quale fosse la cosa migliore per nostra madre.
Andai a fumare una sigaretta giù nel cortile e quando ritornai su in reparto dissi a mia sorella che forse la cosa migliore era quella di andare da lei, provare a spiegarle la situazione e cosa avevano detto i medici e poi lasciarla decidere. Fu in quel momento che mia sorella, un medico che aveva terminato da poco la specializzazione in otorinolaringoiatria, mi rivolse uno sguardo attonito e mi disse scandendo bene ogni parola “Ma non stiamo facendo bioetica qui”.
Colpisce che a distanza di anni di fronte all’attuale emergenza, la diffusione del virus e con le terapie intensive che si riempiono sempre di più, giorno dopo giorno, il
documento degli anestesisti-rianimatori dia di fatto la stessa risposta. Non metto in discussione le buone intenzioni delle persone che hanno redatto il documento (è vero comunque che, come si dice, l’inferno è lastricato di buone intenzioni) e va dato loro merito di aver affrontato apertamente una questione che ormai è davanti a tutti, a volte nascosta dai mass media ma che riemerge sempre nei telegiornali nazionali.
Tuttavia, gli autori di questo testo non sembrano essere stati minimamente sfiorati dalla rivoluzione bioetica che, in corso ormai da diversi decenni, è stata capace anche nel nostro paese di mettere in discussione l’idea che in medicina spetti all’operatore sanitario e soltanto all’operatore sanitario decidere delle questioni riguardanti il paziente e la cura.
Dalla prima riga, gli autori ribadiscono l’idea classica della distanza che separerebbe l’operatore sanitario dal paziente: il paziente può essere anche in grado di intendere e di volere, ma non è comunque una persona competente, anche perché “È comprensibile che i curanti, per cultura e formazione, siano poco avvezzi a ragionare con criteri di triage da maxi-emergenza (…)” (p. 3). Il motivo sarebbe semplice “in quanto la situazione attuale ha caratteristiche di eccezionalità” (p. 3).
Peccato che proprio qualche riga prima si dica che lo scenario in cui ci si trova a scegliere non è affatto nuovo in quanto “Uno scenario di questo genere è sostanzialmente assimilabile all’ambito della ‘medicina delle catastrofi’, per la quale la riflessione etica ha elaborato nel tempo molte concrete indicazioni per i medici e gli infermieri impegnati in scelte difficili” (p. 3).
A parte questo è legittimo chiedersi cosa fa pensare agli autori del documento SIAARTI che la popolazione sarebbe poco avvezza a ragionare con criteri di triage da maxi emergenza: in fondo non accade soltanto in medicina di trovarsi in una situazione dove le risorse sono scarse e si deve scegliere come distribuirle. Presumere che questo accada soltanto nell’ambito della medicina sembra denotare una grave mancanza di consapevolezza delle cose del mondo e tradire, da una parte, una discutibile presunzione circa il proprio ruolo professionale (e circa le competenze mediche che chi fa il medico avrebbe) e, dall’altra parte, un pregiudizio ‘atavico’ nei confronti della capacità nostra e dei pazienti di confrontarsi con le cose e le scelte riguardanti la medicina e la cura.
Quello che colpisce non è la ricerca di criteri che permettano di decidere cosa fare in una situazione di assenza di risorse, ma la convinzione che, in linea con la tradizione medica, queste scelte riguardino e siano di competenza soltanto dei medici.
Quali criteri di selezione?
Il documento della SIAARTI intende presentare criteri di selezione oggettivi che riguardano la salute della popolazione: in realtà quello che gli autori sembrano rivendicare è il diritto dei medici di scegliere chi salvare in piena libertà ed autonomia, sulla base delle ragioni che possono ritenere di volta in volta più giuste in base alle loro convinzioni personali.
Da parte degli autori del documento c’è la preoccupazione che le scelte degli operatori possano essere contestate: e pertanto a pagina 3 si afferma esplicitamente “Lo scopo delle raccomandazioni è anche quello di sollevare i clinici da una parte della responsabilità nelle scelte, che possono essere emotivamente gravose, compiute nei singoli casi. L’altro scopo è quello invece “di rendere espliciti i criteri di allocazione delle risorse sanitarie in una condizione di una loro straordinaria scarsità” (p. 3).
Da qui l’esigenza di stabilire un criterio di giustizia distributiva che tenga conto dello squilibrio estremo tra richiesta e disponibilità delle risorse e giustificato dalla straordinarietà della situazione. Tuttavia, nel documento non viene poi esplicitato un chiaro criterio che vincolerebbe l’operato del sanitario: tutt’al più si indicano alcuni principi generali che, in una situazione di selezione, dovrebbero guidare la scelta dell’operatore, ma non c’è alcuna indicazione su quale principio dovrebbe avere la prevalenza sugli altri (qual è, cioè, l’ordine) e nemmeno c’è alcuna indicazione sul modo più corretto di bilanciare i principi quando questi entrano in conflitto.
Alla fine, cioè, non soltanto manca il riferimento a quel principio oggettivo di giustizia distributiva che si prometteva, ma sembra esserci la volontà di lasciar nel vago la riflessione bioetica sui principi di scelta e selezione per permettere all’operatore che opera nella situazione di emergenza la possibilità di agire in base alla sua coscienza ed intuizioni.
Del resto, per prima cosa il documento afferma che “si tratta dunque di privilegiare la “maggior speranza di vita” (p.3). Dove per speranza di vita si intende il successo terapeutico, in quanto, si dice, “Il bisogno di cure intensive deve pertanto essere integrato con altri elementi di ‘idoneità clinica’ alle cure intensive, comprendendo quindi: il tipo e la gravità della malattia, la presenza di comorbidità, la compromissione di altri organi e apparati e la loro reversibilità” (p. 3).
Non è chiaro però perché subito dopo si affermi che può essere necessario “porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva” (p. 5): se l’obiettivo è quello di garantire la sopravvivenza al paziente con più speranza di vita, non ha senso porre un limite d’età perché il paziente più anziano potrebbe anche essere quello con maggiori possibilità di sopravvivenza.
È vero che dopo una certa età (diciamo, ad esempio, 85/90 anni? Oppure fissiamo un’età diversa? Ad esempio 78?) la possibilità di rispondere bene al trattamento si riduce sensibilmente e che pertanto quando si parla di porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva il riferimento è probabilmente a quei casi in cui non c’è più nulla da fare. Tuttavia, rimane un problema, in quanto a pag. 4 del documento si afferma che in presenza di una situazione di emergenza e con risorse scarse i medici dovrebbero salvare in primis chi ha più probabilità di sopravvivenza e secondariamente chi può avere più anni di vita, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero delle persone.
A parte il fatto che si poteva spiegare meglio che cosa significa massimizzare il bene del maggior numero di persone, quello che qui non risulta chiaro è come l’operatore dovrebbe tenere insieme e bilanciare queste diverse esigenze. Scrivendo che l’operatore dovrebbe guardare per prima cosa alle probabilità di sopravvivenza e poi agli anni di vita, gli autori del documento sembrano suggerire che, dal loro punto di vista, i pazienti dovrebbero essere selezionati innanzi tutto in base alla probabilità di sopravvivenza (cioè lasciar morire quelli che non hanno alcuna possibilità di sopravvivenza o sui quali comunque, a causa delle complicazioni che hanno l’intervento non potrebbe avere successo terapeutico) e poi passare una seconda selezione che tenga conto degli anni di vita che ‘ragionevolmente’ possono aspettarsi.
Sembrerebbe, cioè, che il paziente ideale per la terapia intensiva dovrebbe essere quello che presenta le maggior probabilità di sopravvivenza e che a parità di probabilità di sopravvivenza ha davanti a sé un maggior numero di anni. In altri termini, il documento SIAARTI sembra proporre la vecchia legge del mare che, in caso di pericolo di naufragio, nelle scialuppe di salvataggio bisogna (è giusto e doveroso) dare sempre la precedenza ‘alle donne e ai bambini’. Da un documento che esordiva dicendo che i pazienti non sono in grado di capire i criteri di scelta che un operatore sanitario deve affrontare in una situazione di emergenza ci aspettavamo sinceramente qualcosa di più originale.
Tuttavia, i problemi restano perché le situazioni di scelta sono più complicate di come il documento cerca di presentarle. Facciamo un esempio: immaginiamo di avere a disposizione 20 posti in terapia intensiva: il documento della SIAARTI afferma che il criterio “first come, first served” non è il criterio di selezione ideale in una situazione di emergenza. Ma come facciamo a scegliere se abbiamo 40 pazienti che presentano un quadro clinico sostanzialmente simile? In questo caso si potrebbe selezionare sulla base dell’aspettativa di vita, ma questi pazienti potrebbero essere coetanei e non conoscendo il loro stile di vita (sono fumatori? hanno familiarità con il cancro?) sarebbe difficile fare previsioni.
A complicare le cose, poi, c’è un’altra considerazione: perché un paziente con un quadro clinico forse un po’ peggiore dovrebbe essere lasciato morire rispetto a pazienti che presentano un quadro clinico migliore ma sono più vecchi? Per quale motivo, cioè, dovremmo dare sempre la precedenza alle migliori probabilità di sopravvivenza e non far prevalere, in situazioni dove ad esempio il quadro clinico non è drammatico, l’età del paziente e la sua aspettativa di vita. In base, cioè, a quale principio morale la sopravvivenza del paziente dovrebbe sempre prevalere su altre considerazioni? A questo si aggiunga che non è chiaro che cosa gli autori intendano per sopravvivenza del paziente.
L’impressione è che gli autori del documento siano vittime di un principio che caratterizza da sempre la pratica medica: il vitalismo medico afferma che la cosa più importante è la sopravvivenza del paziente, qualsiasi altra cosa passa in subordine. Tuttavia, anche se la vita ha valore, considerazioni sulla qualità della vita dovrebbero a volte avere la precedenza. Forse gli autori danno per scontato che sia giusto selezionare anche tenendo conto della qualità della vita dei pazienti, essi però non affrontano minimamente il problema e lasciano la questione interamente a discrezione del sanitario. In questo modo, però, i criteri di selezione cambieranno inevitabilmente a seconda del luogo e degli operatori sanitari.
Ad aggiungere un ulteriore elemento di confusione, sono le contraddizioni che contraddistinguono il documento. Prima infatti si afferma che la selezione dell’operatore deve procedere tenendo conto della probabilità di sopravvivenza del paziente e soltanto in un momento successivo della sua età anagrafica e della sua aspettativa di vita.
Alla fine, invece, si dice è che l’operatore sanitario deve prima considerare l’età anagrafica del paziente e poi (in aggiunta a questo elemento e soltanto successivamente a questa considerazione) anche il quadro clinico del paziente (sic!): “La presenza di comorbidità e lo status funzionale devono essere attentamente valutati, in aggiunta all'età anagrafica. È ipotizzabile che un decorso relativamente breve in persone sane diventi potenzialmente più lungo e quindi più “resource consuming” sul servizio sanitario nel caso di pazienti anziani, fragili o con comorbidità severa.” (p. 5). Non vorremmo trovarci al posto dell’operatore che oggi volesse provare a seguire le raccomandazioni del gruppo di lavoro.
Conclusioni
Il documento SIAARTI non può essere di alcuna utilità agli operatori che agiscono in questa situazione d’emergenza: vengono proposti principi di selezione dei pazienti poco chiari e la cui modalità di applicazione resta enigmatica. L’unica cosa apparentemente chiara che emerge dal documento è che considerata la situazione di emergenza e di eccezionalità e in una situazione di scarsità di risorse può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in TI (p. 5). Ma anche in questo caso non è chiaro qual è il limite di età che si propone di fissare, in base a quali evidenze scientifiche e quali sono le ragioni morali che dovrebbero giustificare il sacrificio dei più vecchi a favore dei più giovani.
Quello che resta pertanto è un documento che sembra produrre un unico obiettivo e cioè quello di permettere agli operatori sanitari di fare le scelte che ritengono più giuste sulla base delle loro personali valutazioni delle circostanze. Non si propongono criteri – e nemmeno si presenta una loro giustificazione – intorno a cui si può aprire poi una discussione pubblica, ma attraverso questo documento gli operatori rivendicano in una situazione di eccezionalità una maggiore competenza riguardo alle questioni che riguardano la salute e la vita rispetto ai pazienti ed ai loro familiari.
È la vecchia etica medica che ritorna sotto mentite spoglie senza essere stata capace di apprendere qualcosa dalla bioetica.
Maurizio Balistreri
Ricercatore di filosofia morale e bioetica presso il Dipartimento di Filosofia e scienze dell'Educazione dell'Università di Torino