La gestione delle malattie rare in età pediatrica rappresenta una sfida clinica di crescente complessità. Per molte di queste patologie non è solo la rarità a complicare la situazione, ma anche la loro espressione clinica aspecifica, causa di significativi ritardi diagnostici che possono compromettere sia la prognosi, che la qualità di vita. La Neurofibromatosi di tipo 1 (NF1) e la Deficienza di Lipasi Acida Lisosomiale (LAL-D) ne sono due esempi paradigmatici. Si tratta di malattie genetiche rare per le quali, oggi, sono disponibili terapie specifiche in grado di modificare sensibilmente il decorso clinico. Entrambe sono state al centro della Lettura “L’invisibilità nelle malattie rare: dall’impatto sulla QoL della NF1 ai segni nascosti della LAL-D”, tenutosi in occasione del Congresso Nazionale della Società Italiana di Pediatria (SiP), nei giorni scorsi, a Napoli.
La Neurofibromatosi di tipo 1
“La Neurofibromatosi di tipo 1, anche nota come malattia di von Recklinghausen – spiega il prof. Martino Ruggieri, direttore dell’UOC di Clinica Pediatrica dell’AOU Policlinico Universitario di Catania – è una delle forme più comuni di neurofibromatosi e colpisce prevalentemente il sistema nervoso, la pelle e gli occhi. È causata da una mutazione del gene NF1 sul cromosoma 17, responsabile della produzione della neurofibromina, una proteina che regola la crescita cellulare”. L’alterazione di questo gene determina una proliferazione incontrollata delle cellule, con la formazione di tumori benigni, i neurofibromi, che possono manifestarsi in forma cutanea o plessioforme. Il quadro clinico della NF1 è estremamente eterogeneo e comprende, tra i principali segni, macchie cutanee color caffè-latte, lentiggini in sedi atipiche (come ascelle e inguine), neurofibromi sottocutanei, noduli di Lisch a livello oculare, alterazioni scheletriche (scoliosi, displasia ossea) e disturbi dell’apprendimento in circa la metà dei pazienti pediatrici.
I neurofibromi plessiformi
La LAL-D
Parallelamente, l’innovazione terapeutica sta modificando il panorama clinico anche della deficienza di lipasi acida lisosomiale (LAL-D), una malattia genetica rara causata da una mutazione del gene LIPA, che determina un deficit o un’assenza dell’enzima LAL. “Questo enzima – spiega il prof. Andrea Pession, presidente della SIMMESN – è fondamentale per la degradazione intracellulare di lipidi come colesterolo esterificato e trigliceridi. In sua assenza, si osserva un accumulo patologico di grassi in organi come fegato, milza, intestino e vasi sanguigni, con conseguenze progressive e sistemiche”. La LAL-D si presenta in due principali fenotipi clinici: una forma infantile severa (storicamente nota come malattia di Wolman), con esordio precoce e decorso rapidamente fatale se non trattata, e una forma a esordio tardivo, che può manifestarsi in età pediatrica o adulta con steatosi epatica, ipercolesterolemia e aumentato rischio cardiovascolare. La diagnosi della LAL-D è resa particolarmente difficile dalla aspecificità dei sintomi, che mimano condizioni molto più comuni, come la steatosi epatica non alcolica o la dislipidemia. La terapia di riferimento per la LAL-D è una terapia enzimatica sostitutiva che sostituisce l’enzima carente. Il farmaco, disponibile anche in Italia per la forma della malattia ad esordio infantile, ha dimostrato un miglioramento significativo della sopravvivenza.
Il ruolo del pediatra per il trattamento delle malattie rare
In questo scenario, il ruolo del pediatra assume un valore strategico. A delinearlo è il prof. Giovanni Corsello, ordinario di Pediatria generale e specialistica all’Università di Palermo, già presidente della Società Italiana di Pediatria (SIP). “Oggi la sopravvivenza e la qualità di vita dei bambini affetti da malattie rare sono profondamente cambiate grazie all’accesso a nuove terapie e allo sviluppo dello screening neonatale esteso. Ma per garantire un percorso diagnostico-terapeutico efficace è indispensabile il coinvolgimento del pediatra sin dalle prime fasi, come figura di raccordo tra famiglia, specialisti e rete territoriale”. La sfida della multidisciplinarietà, in questo contesto, non è più rinviabile. Integrare specialisti diversi in un unico piano assistenziale è oggi la condizione essenziale per assicurare continuità di cura e presa in carico a lungo termine. “Il pediatra del centro di riferimento – conclude Corsello – ha anche il compito di facilitare la transizione all’età adulta, accompagnando il paziente nel passaggio verso il medico dell’adulto senza frammentazioni assistenziali. Solo così possiamo trasformare l’innovazione terapeutica in un vero miglioramento della salute dei nostri bambini”.
di Isabella Faggiano