Il SSN non può più andare avanti così. Del servizio pubblico rimane sempre di meno. Le persone sono sempre più a secco di assistenza. Le politiche sociosanitarie sono sempre più orientate ad incrementare il portafoglio dell’erogazione delle prestazioni essenziali in favore dei privati e degli IRCCS, anche di quelli a conduzione pubblica. Nel frattempo, la Nazione invecchia, meglio incanutisce ma si difende, dividendosi tra “diversamente giovani”, anziani, vecchi e ultracentenari. Una popolazione che diventa espressione della longevità, tanto da arrivare presto a conseguire la maggioranza relativa nel Paese.
Il pensare a cosa accadrà terrorizza
Con queste premesse, le prospettive sono preoccupanti in termini di welfare state, con:
A fronte di tutto questo, non volendo eccedere con frequenza ad esercitare il compito di “ragioniere del dolore”, passo ad una proposta.
L’esigenza di quattrini è palese, soprattutto sul piano degli investimenti, molto trascurati dal Pnrr, lasciati a marcire con iniziative (Case e ospedali di comunità e Cot) che sono sino ad oggi illusorie e con altre tecnologiche (telemedicina e simili) attraenti solo su piano del business, abile nell’assicurare il godimento delle sole briciole assistenziali.
Dunque, con iniziative andate in fumo e politiche sociosanitarie favorevoli molto di più ad incrementare i budget dei privati accreditati e contrattualizzati, oramai i veri padroni dell’assistenza territoriale, tra un andirivieni di pratiche promozionali anche indebite da parte dei Cup, occorre mettere in moto una vera spending review.
Una revisione della spesa che passi per gli investimenti di oggi per rendere sostenibile il Ssn e determinare benessere all’utenza nazionale, portando quella del sud del Paese ad essere trattata come quella di altrove.
Una spending review degna del suo nome e dei risultati utili deve essere sistemica e non occasionale. In quanto tale ben supportata da politiche specifiche in tal senso, nettamente trasformative della condizione di partenza.
Per essere efficace e profittevole di economie, ma nello stesso tempo di rilancio del benessere produttivo di migliori condizioni di vita delle persone, una siffatta politica socio-economica deve passare da un binomio indissolubile: previsioni e prevenzione.
Ciò nel senso che, attraverso il loro combinato sviluppo, si debba conciliare - attraverso una significativa azione di prevenzione, accentrata in capo allo Stato – una preventivata concretizzazione di maggiori risparmi futuri a fronte di investimenti in una novellata politica sociosanitaria, peraltro di valore finanziario contenuto.
L’odierno disastro e le paure del domani
Dalla dismissione delle funzioni affidate un tempo alla rete degli ufficiali sanitari, delle condotte soprattutto veterinarie e dei medici e veterinari provinciali la prevenzione è diventata teoria pura. Non solo. È stata vittima di finanziamenti tali da affamare le collettività regionali in termini di profilassi e di intervento d’urto efficaci. Il 4% prima elevato di recente al 5% del Fondo sanitario nazionale dedicato alla prevenzione sono la dimostrazione di come nel nostro Paese la guardia nei confronti delle malattie infettive, gli investimenti in educazione sanitaria e nutrizionale nonché i rimedi a sistema per contrastare gli esiti dell’invecchiamento precoce della popolazione sono stati trattati male. Con questo, il sistema di tutela negli ambienti di vita e di lavoro ha negativamente progredito sino a fallire. Ha guadagnato una preoccupante insufficienza perché fondata su dipartimenti territoriali della prevenzione che, al di là della somministrazione dei vaccini, hanno fatto poco o nulla. Ciò in buona compagnia della prevenzione veterinaria che ha lasciato pascolare, con buona pace dei sindaci guardiani disattenti, la brucellosi e tutte le malattie inquinanti la salute degli animali, non ultima la peste e la tubercolosi che galoppa nel rurale affollato dai cinghiali.
Insomma, la dimostrazione che il Covid-Sars è ricaduto unicamente sul sistema ospedaliero, particolarmente delle terapie intensive, la dice lunga di come sia assente un sistema efficace di prevenzione a 360°. Del resto, sarebbe assurdo continuare a pensare - con una profilassi internazionale di competenza esclusiva dello Stato, con la conseguente dipendenza da esso dei medici di porto, aeroporto e confine – di lasciare fare liberamente alle Regioni ciò che non fanno. Il tutto aggravato da un sistema di assistenza territoriale che è la vera pecca in tema di tutela della salute della Nazione, con la medicina di famiglia che è diventata una chimera e i distretti divenuti uffici d’offerta prevalentemente burocratica.
Lo Stato deve scommettere su sé stesso
Fatte queste considerazioni e tenuto conto di quanto incide nei costi della società civile la longevità conquistata dalle persone, si avverte la necessità di rendere operante un sensibile allargamento delle attribuzioni statali connesse al tema della profilassi, da intendersi al lordo di ogni attività medica della sanità pubblica a scopo preventivo. Insomma, un ambito da considerarsi omnicomprensivo. In quanto tale da organizzare con l’affidamento delle competenze che vadano, anche nell’ordinario, ben oltre quelle assegnate in via esclusiva alla profilassi internazionale (art. 117, comma 2, lettera q), generata dalla somma di quelle nazionali. Quell’ambito assistenziale che la Corte costituzionale, con la sentenza 37/2021, ha inglobato nella competenza dello Stato: il tema della legiferazione della tutela della salute nei periodi emergenziali, con conseguente schiacciamento dell’esercizio regolatorio delle Regioni. Va da sé che con la continuità delle emergenze, oramai inarrestabili anche a causa della incontenibile migrazione, è lo Stato che deve mantenere riaccentrati i poteri a garanzia di una prevenzione da concretizzare ovunque come primo dei Lea.
Ebbene con l’eccessivo sopravvenuto allargamento delle maglie assistenziali della prevenzione, in spregio ai principi e criteri fissati dalla grande riforma del 1978, la missione assegnata ai Dipartimenti di prevenzione aslini è risultata inadeguata a mettere a terra la tutela preventiva della salute e la sicurezza della comunità, sia sociali che del lavoro. Ciò anche in relazione alle esigenze dettate dalla mutazione delle comunità, quanto a composizione anagrafica. I diversamente giovani e gli anziani ultraottantenni sono oramai maggioranze relative del Paese con previsione alla crescita e, in quanto tali, da rendere destinatari e beneficiari di una prevenzione specifica che li supporti dall’età appena adulta.
Oramai l’attenzione al diversamente giovane impone un consistente impegno programmatico verso la silver economy tale da farla divenire, per la sua continua rilevanza nei consumi specifici, ambito protetto dei consumi inadeguati, specie alimentari. Un onere che deve coinvolgere la prevenzione in ogni suo livello a cominciare dalla protezione della migliore crescita culturale dei giovani, esponendoli favorevolmente a guadagnare in forma psico-fisica la longevità, e di quelli che lo sono diversamente, non sottraendo alcunché ai meritevoli anziani.
Dunque, prevenzione di Stato
Nutrizione, educazione alla conoscenza delle malattie latenti, controllo delle insorgenze delle malattie diffuse che incidono negativamente sul metabolismo, lotta al bullismo familiare e a quello dello scellerato agonismo che generano un incremento della generazione anoressica, l’integrazione delle persone immigrate sono solo una parte che impone la centralizzazione della prevenzione in capo allo Stato. Una soluzione, questa, cui dovere assolvere con tempestività e a tutela dell’attuazione del regionalismo asimmetrico che rischia di attenuare a macchia di leopardo gli interventi e le ricadute della prevenzione nelle Regioni più inadeguate.
Meglio sarebbe, la generazione di una specie di “monopolio di Stato della prevenzione”, cui affidare compiti attuativi e di risultato da conseguire attraverso le Regioni, le Province autonome e la rete di confine terracqueo, atteso che il prevenire gli stati patologici, annunciati e non, costituisce la base delle profilassi internazionali (art. 117, comma 2, lett. q). Una metodologia che generebbe, se diffusa nell’UE, la concretizzazione di un’Europa reale.
Una siffatta tipologia di “monopolio di Stato della prevenzione” costituirebbe lo strumento, attuativo e predittore, per intervenire a garanzia dello star bene ovunque, sia in termini di impatto immediato all’insorgenza di fenomeni epidemici che di contributo alla educazione nutrizionale e di vita delle diverse generazioni, a partire dai giovani. Un fenomeno che ha tra i suoi compiti: sul piano domestico, di sviluppare attraverso la rete dei comuni e delle aziende sanitarie la messa a terra di politiche di prevenzione progressivamente adattate ai territori destinatari; sul piano europeo, di rendersi strumentale al diffondersi nell’UE di ogni genere di metodologia tecnico-scientifica predittiva dello sviluppo di politiche di diritto eurounionale di rafforzamento del welfare assistenziale, segnatamente incidente sul decremento dei costi riconducibili a quello previdenziale non contributivo.
Ettore Jorio