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La confusione sulla sanità territoriale

di Ettore Jorio

Tutto questo ha prodotto un macello organizzativo, a tutto vantaggio di una confusa definizione del servizio di assistenza di base - viziato da attività difficili da fare convivere e conciliare -  e di un consistente incremento retributivo per i medici prestatori d’opera.

01 APR -

La premessa indissolubile è che alla Nazione, tutta, occorre una assistenza territoriale sociosanitaria, ma efficiente non sulla carta. Difficile da ottimizzare dopo decenni di disattenzione assoluta sul tema, specie nel Mezzogiorno.

Quella che occorre mettere a terra deve essere diffusa e centrifuga. L’esatto contrario di ciò che sino ad oggi è stata persino idealizzata. Quella che c’è è infatti assicurata grazie esclusivamente ai medici di famiglia, trasformatisi però - piuttosto che essere attenti guardiani della salute delle famiglie - in mediatori dell’accesso all’offerta ospedaliera, con un eccessivo ricorso alla diagnostica per immagini. Per il resto, comunque ben lontani dal domicilio delle persone, fatte le dovute eccezioni.

L’uso corretto del termine «prossimità»
Per bene pensare ai correttivi da assumere necessita preliminarmente prendere in mano il vocabolario italiano e fare propria la definizione di prossimità e su essa costruire ciò che occorre.

Il Treccani la definisce «grande vicinanza nello spazio e nel tempo». Quindi, tutti i servizi devono essere molto vicini, a brevissima distanza sia sul piano metrico lineare che cronometrico, in modo tale da rendere possibili agli individui il facile raggiungimento dei presidi del sistema erogativo delle prestazioni essenziali.

La regola aurea è che, specie nella assistenza sociosanitaria, la domanda e l’offerta primaria devono essere attive nei piccoli spazi, in quelli più stretti in uso alle marcature degli stopper.

In un Paese che dovrebbe rendersi garante di questo approccio alla Salute, ciò non accade e forse non è mai accaduto, se non nelle aspettative della legge 833/1978, la grande riforma che istituì il Servizio sanitario nazionale, garante della uniformità, globalità e socialità delle prestazioni.

Oggi, rispetto alle aspirazioni settantottine, improntate su un distretto sanitario di base, quale strumento diffusore di assistenza territoriale, è cambiato tutto. Negli ultimi dieci anni si è ingenerata una confusione di ruoli, tra strutture, tra concezioni ideologiche della assistenza di base, tutte finalizzate a ledere la tutela della salute, diritto fondamentale dell’individuo.

Il distretto sanitario è divenuto, da territorio circoscritto da riempire di assistenza prossima alla persona, un presidio pieno zeppo di burocrazia, che non esprime nulla in termini di prevenzione e di assistenza domiciliare.

La svalutazione della Riforma che mandò a casa le mutue

Dalla 833/1978 è tutto cambiato, con il grande sgradito impegno sull’aziendalizzazione, che ha portato alla guida delle aziende sanitarie circa 300 direttori generali, costituenti - da una parte- lo strumento attraverso il quale la politica intercede nella gestione spicciola della salute e - dall’altra - la più grande lobby condizionante, con la loro continuità di esercizio, le scelte della politica.

Per il resto, un DM 70/2015 che - ideato dall’allora ministro Lorenzin - è finito per dimostrarsi sproporzionatamente fuori luogo e inadatto per la composizione fisica del Paese. Lo ha fatto a tal punto da constatare oggi tantissimi presidi ospedalieri privi dei requisiti necessari, addirittura, per l’accreditamento (in Calabria, tutti). Un flop segnatamente pericoloso tanto da far prefigurare la loro attività come erogata in regime di esercizio abusivo di una professione (art. 348 C.P.), in quanto tale responsabile ex se di danno risarcibile e messa in discussione delle coperture assicurative. Non solo. Con la riconducibilità alla esclusiva distinzione, affine alla ruota della bicicletta, tra presidi Hub e Spoke ha ricondotto la programmazione delle Regioni, molte delle quali impegnate a gestite composizioni geomorfologiche oblunghe, in una direzione sbagliata. Ovverosia di far supporre l’obiettivo raggiunto con gli Hub (il perno/mozzo del cerchio) che opera con Spoke (i raggi della ruota) di diversa distanza tanto da configurare non una ruota tonda bensì ovale, spesso molto. Una tale previsione, apparentemente condivisibile nella generalità, avrebbe avuto bisogno di divisioni territoriali generali con le previsioni di più Hub da assistere siti di pressoché uguale distanza dagli Spoke periferici. Conseguentemente, è venuta fuor l’assurdità anche in termini con una ruota che disegna distanze abissali, con assistenza ospedaliera presso i più attrezzati Hub difficili da frequentare, sia per i malati che per le loro famiglie.

Ma la confusione non è finita qui
Per farla breve, nell’assistenza in prossimità, certamente da rivedere nella sua considerazione, si è dato seguito alla sua erogazione mediante l’istituto della convenzione, ereditata dal sistema mutualistico, disciplinata oggi dall’art. 8 del D.Lgs. 502/1992, cui hanno fatto seguito diverse variabili di esercizio. Si è passati dalla medicina di gruppo, alle Aft con l’approvazione del D.L. n. 158/2012 (con la previsione più avanzata, pluridisciplinare ma mancata del tutto delle Uccp e intermediate temporalmente dalle Usca) per pervenire alla previsione con il DM77/2022 delle Case di comunità, con a fianco gli Ospedali di comunità e con in mezzo le Cot.

Tutto questo ha prodotto un macello organizzativo, a tutto vantaggio di una confusa definizione del servizio di assistenza di base - viziato da attività difficili da fare convivere e conciliare - e di un consistente incremento retributivo per i medici prestatori d’opera.

Lo svilimento delle regole e della gerarchia delle fonti porta al disastro
Un tale modo di governare a segmenti isolati senza una corretta considerazione e visione dell’insieme assistenziale ha determinato una impropria grande confusione nella esistenza delle regole e nella stipula delle convenzioni di base: sul cosa e come fare concretamente salute. Il tutto con le Case e gli ospedali di comunità difficili da realizzare e impossibili da mettere in funzione.

Ci si è occupati solo a fronte di cosa, economicamente parlando, andasse a retribuire i medici destinatari. Si è venuta così a male interpretare la parte più pubblica del contenuto della contrattazione collettiva integrativa regionale, che sta generando uno scompiglio nella resa delle prestazioni dei medici di famiglia.

Ciò in quanto alcune Regioni stanno lavorando di più sull’ingenerare delle aspettative di corto periodo, facendo ricorso (sbagliato, perché non destinabili a spese di esercizio) ai fondi Pnrr non proprio correttamente in relazione alla ratio UE, che sulle riforme strutturali occorrenti.

Il caso Puglia, non male nelle intenzioni ma errato nel percorso
Un caso da analizzare è quello pugliese, apprezzabile sotto il profilo della ragione di tutela della sanità pubblica ma perseguita con strumenti non affatto condivisibili: una delibera di giunta approvata l’appena 26 marzo scorso.. Una delibera politica perfezionata in prossimità delle elezioni regionali, dall’esito condizionato dalla sottoscrizione di un futuro accordo integrativo con le organizzazioni sindacali.

Con essa sarà immaginato e dettagliato il potenziamento dell’esercizio della medicina territoriale, con particolare riferimento all’ADI e ai servizi erogati dalle Case di comunità ipotetiche, perché esistenti ad oggi solo in via teorica, e dai presidi territoriali in via generica. Questi ultimi, invero, ben attenzionati dalla giunta Emiliano, con un provvedimento giuntale (pubblicato dul BUR n. 2/2025, riguardante la “Modifica e integrazione DGR n. 742/2023. Nuova articolazione delle Aggregazioni Funzionali Territoriali della Medicina Generale) dimostrativo di quanta attenzione fosse data dalla Regione alla assistenza di prossimità.

La Regione Puglia avrebbe stanziato per l’occorrenza, con la delibera del 26 ultimo scorso, 83 milioni, di cui 32 impegnati sul Pnrr, 24 di risorse statali e circa 27 sul bilancio regionale. Una bella idea, quella di Emiliano e i suoi, ma non regolata da leggi, sia statali che regionali, quelle cui viene rinviata la disciplina dell’assistenza di famiglia. In quanto tale non rinviabile alla contrattazione collettiva integrativa, in quanto destinata a trasformare radicalmente l’esigibilità dei Lea così come previsti nell’ambito di esercizio della macroarea di assistenza distrettuale nel Dpcm 12 gennaio 2017.

Corretta l’aspettativa pugliese ma inidoneo lo strumento. Che peraltro andrebbe ad arricchire sensibilmente di 83 milioni (seppure ipotetici) la già ultra dignitosa retribuzione annua a massimale dei medici di medicina generale, già incrementata di 11 euro ad assistibile per la costituzione in Aft e di altri 5 euro a titolo di rimborso per la loro organizzazione e mantenimento.

Una retribuzione che farebbe tanto arrabbiare (sul piano della scelta politica) chi è impegnato a lavorare duramente nelle corsie ospedaliere beneficiario di un misero terzo.

Le intenzioni del Ministro fanno ben sperare
Da una interlocuzione avuta con il ministro Schillaci, sono uscito con grandi speranze in tasca. Mi ha entusiasmato il suo volere privilegiare ad ogni costo la prevenzione e, con essa, la eliminazione delle cause che determinano le patologie più socializzate a causa di una gestione troppo liberalizzata della nutrizione. Un obiettivo di alto pregio che, unito alla volontà di volere riformare strutturalmente l’assistenza di prossimità, fa ben sperare per il futuro.

Ettore Jorio



01 aprile 2025
© Riproduzione riservata


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