Prescindendo dalla divisione tra Servizio sanitario nazionale reso attraverso il sistema pubblico e quello erogato dai privati, bisogna tenere conto di una ulteriore distinzione. Tutti gli operatori sociosanitari - fatta eccezione per i soli autorizzati all’esercizio che contano ben poco nel panorama globale - devono essere accreditati. Tra questi, quelli destinati a rappresentare l’offerta dei Lea ospedalieri e territoriali, ivi compresa la prevenzione. Tra i primi, le aziende ospedaliere e gli spoke delle Asl, le AOU e le Case di cura private, ma anche gli IRCCS gestiti attraverso Fondazioni pubbliche (21) e private (30). Tra i presidi erogatori di Lea territoriali le strutture pubbliche e gli erogatori privati - sia operanti nella diagnostica chimico clinica e per immagini – accreditati/contrattualizzati, e quindi erogatori con prestazioni a carico del Ssn, ivi comprese quelle impegnate nella riabilitazione.
Al riguardo, tanti i problemi giuridici posti alla base dall’ordinamento perché gli stessi si rendano legittimamente soggetti attivi dell’erogazione dei Lea in regime di concorrenza amministrata, che regola l’ingresso dei soggetti economici privati accreditati a pari merito di quelli pubblici, al fine di allargare l’opportunità di esercitare la libera scelta all’individuo, a mente dell’art. 32 della Costituzione, ma anche nel rispetto garantito del successivo art. 41.
Le norme sono tante, forse troppe per essere ben comprese ma soprattutto ben applicate dal sistema nazionale della salute. La legislazione statale fatta di consistenti e ripetute modifiche e integrazioni, spesso ad personas. Una legge regionale fatta soprattutto di scopiazzi dalle più efficienti in tale senso, che poco fanno per regolare il dettaglio secondo le regole poste dalla legislazione di principio dello Stato. Quest’ultima di frequente convulsa e per questo applicata. Il caso sintomatico è quello istitutivo delle aziende ospedaliere universitarie, di cui al d.lgs. 517/1999.
Sono trentuno quelle presunte tali, ciò perché solo due in possesso del titolo (Dpcm) che ne perfeziona la costituzione e quindi l’esistenza giuridico-economica:
quella di Udine “AOU S. Maria della Misericordia”, munita del Dpcm 2 maggio del 2006 (G.U. n. 143/2006) venuta fuori da una fusione, sulla quale c’è però da esprimere qualche perplessità;
quella di Salerno “AOU S. Giovanni di Dio – Ruggi d’Aragona – Scuola medica Salernitana”, riconosciuta con Dpcm del 31 gennaio 32013 (G.U. n. 55/2013.
Invero potrebbe aggiungersi una terza, quella di Trieste che aggregava i maggiori ospedali triestini, senza contare che il Dpcm dell’8 aprile 1993 (G.U. 84/1993) è di sei anni antecedente alla legislazione che ne istituisse l’esistenza.
Insomma, un macello, nei cui confronti nessun ministro ha inteso dare soluzione ad un tale vergognoso inadempimento che lascia nuotare nel Ssn quantomeno 28 sedicenti AOU, ma anche addirittura declinare denominazioni del tipo “policlinico” non più conforme alle regole ordinamentali da oltre 26 anni. Sarà compito immediato della Meloni e dei ministri co-firmatari, Bernini e Schillaci, a rimediare al tutto, pena una loro brutta figura come i loro predecessori. Una pericolosa figuraccia quella di consentire un illecito da “grossista”: quello di consentire il ricorrente uso indebito di ospedaliera-universitaria a chi non lo fosse, senza peraltro che la Conferenza Stato-Regioni si accorgesse di un siffatto orripilante accaduto, dimostrando di non sapere neppure ciascuna cosa accadesse in casa loro in ambito di offerta dei Lea ospedalieri.
Di questo passo se ne potrebbero raccontare tante altre, a dimostrazione di un Servizio sanitario nazionale che da decenni naviga tra le onde del malessere più profondo.
Basti pensare:
-alle aziende zero, inutili e che portano in corto circuito il sistema, che sono nate come i funghi a iniziativa di funamboli gestori delle sanità regionali, senza che ve ne fosse previsione alcuna nei principi fondamentali, anzi in assoluta contraddizione ad essi in quanto ri-affermative dell’intoccabile autonomia imprenditoriali delle aziende della salute, pertanto non soggette in alcun modo ad indebite sottomissioni giuridico-economiche;
-alle case di comunità e agli ospedali di comunità non sostenute da alcun precetto statale che prevedesse e le insinuasse in capo al distretto sanitario, l’unico a presiedere l’assistenza territoriale e la medicina di prossimità;
-alle Cot, anche esse sprovviste di principio fondamentale e di strumento legislativo statale che ne indicasse la localizzazione e il funzionamento, scandito in un DM che, come ben si sa, è tutt’altro che una fonte legislativa primaria.
La speranza di tutti è che si cessi con una sanità incapace persino di aggiornare il proprio linguaggio che rimane vecchio, ancorato a paradigmi obsoleti (si parla ancora di policlinici!). Una sanità che sappia riformarsi adeguandosi alle esigenze oggi lasciate palo dell’insoddisfazioni, soprattutto per i ceti deboli.
Ettore Jorio