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Ma quanto è difficile operare in “scienza e coscienza”

di Ornella Mancin

06 GIU - Gentile Direttore,
la professione medica è basata sulla relazione medico-paziente, e se pur tale relazione è stata ed è  soggetta a rimaneggiamenti determinati dal cambiamento del contesto sociale , essa rimane elemento fondante dell’atto medico. Tuttavia   l’avvento dell’ Evidence  Based Medicine (EBM) con la sua “ossessione per l’evidenza e l’appropriatezza” (cit. Davide Sisto su QS)  e le  sempre più frequenti spinte del mondo politico per una riduzione della spesa sanitaria, stanno minando  la relazione di cura,  relegando  sempre più il rapporto medico paziente a fatto marginale.
 
Il medico  infatti,  sempre più preoccupato a rispondere ai criteri di appropriatezza e  a seguire i protocolli e le linee guida, opera spesso basandosi esclusivamente  sulle   conoscenze scientifiche e sull’abilità tecnica acquisita , rinunciando facilmente  al proprio ethos umanitario, perché sempre più ritenuto un optional che sottrae tempo ai ritmi del lavoro.
 
I pazienti diventano così, come descrive bene Davide Sisto nel suo intervento,  “unità standardizzate di malattia, perché i protocolli non hanno tra le loro caratteristiche la capacità umana , quindi relazionale, di comprendere l’unicità delle storie individuali e la complessità esistenziale alla base dei valori, dei comportamenti, degli stati d’animo e dei modi di vivere che definiscono ogni persona nella sua singolarità irripetibile”.
 
Ma i medici possono essere tali se rinunciano alla relazione con il paziente? “Vogliamo guardare al futuro, ma partendo dalle nostre radici, e le nostre radici sono la relazione di cura, i principi etici fondanti della professione e il ruolo di mediatore del medico”. Queste sono state le parole della nostra presidente FNOMCeO Roberta Chersevani a Rimini in apertura dei lavori.
 
Ma il medico oggi ha quella autonomia professionale per coniugare al meglio appropriatezza, evidenze scientifiche e relazione di cura?
Ognuno di noi nel suo ambito professionale sta sperimentando la fatica di operare in “scienza e coscienza”  sempre  più stretti  tra lacci burocratici e le esigenze dell’economia.
 
Il recente e contestato Decreto Appropriatezza è stato sola punta di un iceberg  di uno stato di “assoggettamento e obbligazione” come lo chiama il prof. Cavicchi , verso cui rischia di andare la professione.
 
In Veneto sono in arrivo nuove norme per l’erogabilità della mammografia  al di fuori della fascia  di età prevista per lo screening (50-69 anni) che limitano ampiamente la possibilità per i medici di prescrivere (e  per le donne di ottenere) tale esame in regime convenzionato .
Questo è un altro esempio di “medicina amministrata” ma credo che nell’esperienza di ognuno di noi questo stia diventando prassi generalizzata.
 
Ma se è pur vero che deve essere la  politica  a stabilire  che tipo di sanità può garantire ai suoi cittadini, come può il medico avere un ruolo di garante della salute del paziente se deve continuamente fare i conti  con queste pressioni? E’ accettabile che meri criteri economici   si sostituiscano al bisogno di dare senso al rapporto medico-paziente che sta alla base della relazione di cura?
 
E’ questa la medicina per la quale abbiamo studiato  e dato gli anni migliori della nostra vita? Una medicina che stabilisce per decreto quando devo dosare il potassio o fare una mammografia? Che eredità stiamo lasciando alle giovani leve che con notevole impegno e sacrificio si stanno preparando alla professione?
 
Il malessere e il disagio   con cui molti di noi stanno vivendo la professione deve lasciare il passo a una riflessione critica e a una consapevolezza che ci aiuti a rivedere il nostro ruolo di medici  e a recuperare risorse interne capaci di innescare il cambiamento.
 Solo così il medico potrà riprendere  il suo ruolo di garante  di quanti accedono ai servizi sanitari.
 
Ornella Mancin
Medico di famiglia
Cavarzere (Ve)

06 giugno 2016
© Riproduzione riservata

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