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Infermieri. Non essere d’accordo con l’establishment non vuol dire essere populisti

di Piero Caramello

26 OTT - Gentile Direttore,
non posso non riferirmi ai due documenti che hanno animato le ultime settimane della professione infermieristica: da un lato il documento del Tavolo del Ministero e l’altro il cosiddetto documento “di Pisa”.
 
Due facce di una medaglia che non voglio indossare, che rifiuto a priori perché entrambi hanno escluso la possibilità che l’infermieristica come Scienza si appropri di un proprio pensiero filosofico e possa trasformarlo prima un pensiero politico e poi in una azione sociale.
 
Non ho armi per ribellarmi, la mia disubbidienza non ha alcun valore fuori dagli schemi abituali in cui si svolge il confronto professionale, un confronto che non prova nemmeno a “con-vincere” ma punta quasi esclusivamente al “vincere”, come ebbi modo dire, affermando più che mai la totale sconfitta di una intera generazione di professionisti.
 
Non vi è alcuna proposta nel Documento Ministeriale né nel Documento di Pisa che mi sappia raccontare quale infermiere deve esistere in questo Paese, in quei documenti la realtà sociale in cui siamo immersi è del tutto sottovalutata per non dire “strumentalmente” ignorata.
 
Sarebbe grave assecondare quanto prodotto dalla classe dirigente infermieristica, sarebbe come dare cittadinanza ad un pensiero che non mi appartiene, che mira all’individualismo e non riesce a proporre nulla per la collettività.
 
L’infermiere, sia professionalmente che deontologicamente che viene descritto, non solo non mi rappresenta ma soprattutto asseconda una politica demagogica sotto il profilo sostanziale.
 
Occorrerebbe il coraggio e la credibilità di un Emile Zola nonché la sua cultura per elaborare un “j’accuse” a questa classe dirigente (in senso lato) così attenta a coltivare il proprio orticello di consenso piuttosto che elaborare una proposta che sappia davvero togliere dell’impasse una professione ormai quasi definitivamente venduta, per non dire regalata, al pensiero unico neoliberista.
 
È una questione politica, sottile e marginale per qualcuno, ma questa continuo tentativo di erodere posizioni professionali perché incapaci di qualificare professionalmente le proprie competenze se non è scandaloso e quanto meno censurabile.
 
Incapaci di farci valere come Infermieri, preferiamo accanirci verso posizioni tecniche che faranno di noi dei semplici esecutori, dando così un bel calcio alle lotte che tra gli anni settanta e novanta un’intera generazione di infermieri ha portato avanti con convinzione e sacrificio.
In questa animosità, che appare un gioco delle parti, mi tiro fuori e continuerò la mia disobbedienza solitaria.
 
C’è una colpa collettiva, a cui non mi sottraggo, ovvero l’aver preso posizioni divergenti sulle questioni fondamentali, una colpa legata al bisogno di chi ci dirige di avere meno voci da ascoltare in un avvitamento autoreferenziale del cui vantaggio beneficeranno i soliti noti. Non è populismo il mio, Direttore, sarebbe un’accusa ingiusta nei confronti di chi non ha né titoli ne posizioni, è quanto vedo dal mio punto di osservazione.
 
C’è sempre di più la smania di un protagonismo vuoto, fine a sé stesso, senza la volontà reale di migliorare le condizioni di lavoro e di vita (perché vogliamo dirlo che gli Infermieri stanno male non solo professionalmente!!!) ma solo per cercare di ricavare degli spazi pubblici di visibilità.
 
Non interessa davvero a nessuno cosa si vuole dire, si pensa esclusivamente a mettere la propria bandierina in qualche punto non ben definito della galassia infermieristica con lo scopo, a volte celato, di ricavarci qualche “voto” o quale “like”, che forse è peggio.
 
Possibile che nessuno, tra Collegio e Sindacati, riesca a mettere in campo una piattaforma che sappia rivendicare migliori condizioni di lavoro e di vita? Possibile che si cerchi ad ogni costo di lucrare intellettualmente sulle condizioni del Servizio Pubblico anelando possibilità di “involuzione” e controriformatrici un sistema che sta espellendo i cittadini economicamente svantaggiati?
 
Possibile che non ci chieda quali siano le condizioni contrattuali di colleghi costretti ad aprire un P.IVA e che si ritrovano ad essere utilizzati in maniera del tutto incongrua sfociando quell’intermediazione di mano d’opera che in questo Paese sarebbe vietata? Possibile che si tenda ad osservare con lenti opacizzate le condizioni di lavoro e di ricatto sociale a cui sono sottoposti i colleghi appena laureati pur di conservare il posto?
 
A questo punto, probabilmente di non ritorno, con un panorama di discussione vuoto e senza rivendicazione alcuna, mi sembra oggettivo proporre una qualche forma di resistenza civile che possa in qualche misura risvegliare le coscienze ormai sopite. Coscienze che pagano indubbiamente un carico di lavoro diventato insostenibile al quale si accompagna un riconoscimento sociale praticamente nullo, ma a questo aggiungerei anche una sorta di arrendevolezza pseudo-populista del tanto “non cambia nulla”.
 
Quando parlo di resistenza non è certo allo “sciopero” a cui penso, pratica in disuso che molti colleghi dell’ultima generazione hanno probabilmente letto solo sui libri di storia avendone mai praticato alcuno ma piuttosto ad un “ricatto” che sappia colpire tutti coloro che sino ad oggi hanno trovato facile terreno per costruire i loro nidi dorati.
 
Stupisce, ma forse sarebbe più corretto scrivere “addolora”, come una classe dirigente afferente alla presa in cura delle persone non sia stata capace di “assistere e curare” i propri iscritti.
 
Non dimentico, inoltre, una lettera co-firmata da altri colleghi, in cui rivendicavamo la nostra voce totalmente ignorata dai Presidenti IPASVI, Firenze a parte. Un silenzio che suona di disprezzo verso non solo chi la pensa diversamente ma soprattutto di totale distacco da coloro, che nel fondo populista, tengono in piedi il sistema con le tasse annuali.
 
Dunque non rimane che proporre lo sciopero della tassa annuale, smettere di pagare un ente che ad oggi ha saputo produrre una valanga di documenti senza che questi siano mai diventati operativi o che abbiano migliorato le condizioni di vita e di lavoro degli Infermieri italiani.
 
È un discorso bipartisan, vale per il Documento Ministeriale e vale per il Documento di Pisa sul quale varrebbe la pena un ragionamento a parte. Quel documento, al netto di qualsiasi giudizio di merito, è censurabile dal punto di vista del metodo. In un contesto culturale in cui si rivendica la forma come sostanza appare evidente che Pisa ha toppato clamorosamente inficiando qualsiasi possibilità di riuscire raccogliere ulteriori consensi.
 
In questo quadro non solo è possibile resistere ma diventa dovere civico verso i colleghi e verso i cittadini a cui ci rivolgiamo.
 
Una resistenza passiva, che mette in gioco il proprio futuro, che mette a rischio il proprio lavoro e la propria carriera ma che diventa necessaria per provare a scuotere un sistema sordo ed incapace di cogliere gli aspetti drammatici di una professione inchiodata da personalismi e familismi di ogni sorta.
 
Ancora stiamo aspettando che la Senatrice Silvestro risponda alle accuse formulate tempo fa, una risposta che non è mai arrivata e che, stando ai fatti avrebbe dovuta metterla ai margini della professione. Invece siamo ancora a quel punto, solo passi di lato per non dire passi indietro.
 
Piero Caramello
Infermiere

26 ottobre 2016
© Riproduzione riservata

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