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Disegnare una sanità a misura di cittadini e professionisti non è una “riforma tecnica“

di Antonio Panti

06 APR - Gentile direttore,
mi rivolgo a Brenda e Gaia, scusandomi per il ritardo con cui rispondo. Lo faccio volentieri perché non è facile, neppure nei "colleghi più anziani", trovare la vostra puntigliosa acribia e matura consapevolezza nell'affrontare questioni di prassi (meglio di pragmatica) medica, forse ultronee bedside, ma fondamentali per comprendere la collocazione storica del nostro agire.

Tuttavia, convinto come sono che spetti ai giovani mantenere e completare le conquiste della mia generazione (l'IVG, la legge Basaglia, la riforma sanitaria per esempio), desidero chiarire alcune involontarie inesattezze forse dovute a scarsa informazione o a difettosa spiegazione.
Scopo degli Ordini dei Medici (art. 3 della legge istitutiva) è di collaborare con le istituzioni all'organizzazione della sanità nell'interesse della collettività e nel rispetto delle prerogative professionali. Gli Stati Generali hanno altro scopo? Quale e come intendono raggiungerlo?
Collaborare a "disegnare una sanità a misura di cittadini e di professionisti" - mi citate - è ambizioso ma sostenibile progetto. Questa non è una "riforma tecnica", come sostenete, ma altissima e civile politica della professione che è stata grande quando i condotti si battevano contro la malaria, la pellagra e le enteriti infantili cioè per le fognature, per la salubrità dell'aria e delle abitazioni: la medicina politica di Frank e di Virchow.

Il contributo della professione - mi cito ancora- all'istituzione del SSN è stato un altro momento felice in cui hanno coinciso i diritti dei cittadini con la deontologia medica. Ugualmente felici sono stati gli anni ottanta quando un piccolo gruppo di amici, di cui facevo parte, introdusse nel Codice Deontologico i valori dell'autodeterminazione del cittadino e della giustizia contro ogni discriminazione. Non poco e con molte tribolazioni.

Sulle altre questioni da voi sollevate, quasi che una nuova medicina avesse cominciamento con questi Stati Generali (e vi comprendo, anch'io pensavo che il rinnovamento della medicina iniziasse con la mia laurea) faccio qualche sommessa considerazione.

Il medico attraversa un periodo di incertezza di ruolo, sia perché le competenze in regime di libero mercato mettono in crisi i titoli, sia perché, abituato com'è a una libertà spesso confusa con l'anarchia, mal sopporta le richieste di accountability che gli provengono dai progressi della scienza, dalle esigenze dei cittadini, dai sommovimenti sociali, dalle ristrettezze economiche, dal'invasione del diritto in ambiti finora lasciati indenni alla professione.
Pensate che il 10% del PIL di qualsiasi nazione civile, e che non basterà a sopperire alle innovazioni tecnologiche, possa non essere amministrato? Il medico autore: ma la rappresentazione esige un teatro, una scena, attori, registi, amministratori, inservienti, chi recita e chi pulisce. E chi paga? L'autore dovrà pur confrontarsi con l'equità cioè con l'articolo 3 della Costituzione.

Però, si sostiene, la medicina è in crisi e bisogna cambiare paradigma. La medicina è entrata in crisi 25 secoli fa con le prime dieci righe del "de morbo sacro". Da allora non si sono succedute altro che crisi, benefiche e benedette, che ci hanno portato al sapere di cui godiamo. Il Dr. Pizza, voi riferite, vuol edificare con questa iniziativa un ponte tra due millenni. Ma lui che ha fatto sinora? Avrà, come tutti i colleghi, percorso questo ponte che si estende attraverso i secoli nel tentativo, proprio della medicina, di porre rimedio con strumenti artificiali, le terapie, a quegli eventi naturali che sono le malattie.
Care Colleghe, potete spiegare con parole vostre cosa intendete per paradigma "classico"? La tecnè kibernetikè dell'Etica a Nicomaco? la iatromeccnica?la religio medici? o, per giungere all'oggi, la gestalt o il neocognitivismo o l'HEBM o la medicina molecolare o il neodarwinismo? e le scienze "omiche" e quel che sta nascendo dalle neuroscienze e dal connettoma? Temo che dobbiate fare come hanno fatto tutti i medici prima di voi, studiare, studiare sempre, noctes vigilare serenas.

Mi rendo conto come la tecnologia imperante (i medici "conoscono assai Galeno e poco il malato", scriveva Montaigne e Margherita Giudici aggiunge "tutto il conforto che di là era in serbo/ un nome greco per il loro male") abbia acuito un vizio antico, quello di relazionarsi poco e male col paziente, forse più per pigrizia che per fiducia esclusiva nei fatti. Ma, per contro, si erge la retorica di "Cittadella" o del medico di campagna che, chiamato di notte, parte "in uno sfaglio di neve".

Dal tempo degli sciamani i medici hanno sempre curato il malato e non la malattia e, in tempi di trionfante positivismo, per Lugi Condorelli la terapia era frutto di "fantasia più esperienza" e per Augusto Murri compito del clinico è "riconoscere", non per confutazioni ma per conferme, per giungere a quell'interpretazione che ha il massimo grado di affidabilità. Scienza e prassi hanno scopi diversi.

Tutte le generazioni che vi hanno preceduto sono state animate da tre virtù, l'umiltà. l'amore per il prossimo e la curiosità. I paradigmi, i canoni, le epistemologie e il metodo li creano la scienza ma il medico, compresi i più incalliti positivisti, (ma fare i nomi!), hanno sempre ragionato sul malato, e se adesso si rivaluta l'induzione, data l'ampiezza dei dati disponibili, cosa intendete per "aspetti non manifesti ma deducibili", la procedura mentale che interessa i logici puri, o l'umile ragionamento del medico clinico a letto del malato che tien conto di tante cose, emozioni e vissuto, anche il suo, e poi sceglie e non c'è nulla di nuovo. Tutto ciò fa pensare all'Università e criticare la formazione.

Inoltre in questo ragionamento manca la riflessione sui concetti storici, valoriali, metaforici e scientifici di salute e malattia. Anche i pilastri del ponte che i medici attraversano di generazione in generazione mutano, e basta pensare all'aborto e alla discussione sul suicidio assistito. Una circolarità tra fatti e valori che non può essere cristallizzata da nessun paradigma che si presenti come esclusivo. "La medicina è un'arte che si avvale di molteplici scienze e agisce in un mondo di valori"; tra le tante definizioni questa di Giorgio Cosmacini mi ha sempre convinto.

Infine voi sostenete che il "nuovo" metodo deve essere uno "strumento per rendere conforme la razionalità della medicina alla complessità del malato". Ma, di grazia, a che altro ha mai servito qualsiasi metodologia o epistemologia? Restando in Italia, dal classico manuale del Poli a Cagli, a Federspil a Antiseri, passando per le varie Società scientifiche, fino ai compendi di Pagnini o Baldini sul problema del paradigma indiziario, i medici hanno sempre piegato il metodo al risultato, quella che chiamate la medicina della scelta che, temo, sia come l'invenzione dell'ombrello ovvero, come diciamo noi, del buco alle conche.

Possiamo citare una sterminata bibliografia da Faucoult a Canguilhelm, da Jaspers a von Weizsacher, da Riese a Merton a Fantini a Parsons e così via dando dimostrazione di una qual vanità culturale radical chic, come oggi va di moda. Il più bel trattato di metodologia è stato scritto l'anno della presa della Bastiglia "du degrè de certitude de la medicine" da George Cabanis.

Il collega Pizza mi ha sempre accusato di essere un progressista incallito, affossatore dell'antico medico e per questo abbiamo polemizzato, sempre con grande reciproca stima; venti anni fa trovavo buffe le diatribe sul cosiddetto task schifting, ovvero sui compiti degli infermieri. Sono già disponibili app che elaborano diagnosi algoritmiche sintomatologiche con maggiore attendibilità dei medici e degli infermieri. Ho sempre sostenuto che questo dovrebbe preoccupare i giovani, di essere in grado di fare una diagnosi e una prognosi meglio dell'I.A. e, più che altro, di sapersi relazionare col paziente, per il che servono capacità ermeneutiche e comprensione umana.

Mi si affollano altri pensieri ma ne dico uno solo. L'apologia del 900, secolo delle conquiste del welfare che possono imbarazzare chi, secondo Baumann, ha una visione retrotopica della realtà (di fronte all'incertezza del futuro si rifugia nella beatificazione del passato) facciamola davvero, perché il secolo, iniziato con i RX, ha proseguito con i vaccini l'insulina e via e via e il nuovo secolo corre su quella stessa strada. Beati i giovani che la percorreranno.
 
Antonio Panti  

06 aprile 2019
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