La Costituzione sancisce nell’art. 32 il diritto alla tutela della salute, che la medesima ritiene, rispetto a tutti gli altri, fondamentale. Con questo, il diritto di tutti gli individui a goderne, ad essere curati da eventuali sopravvenute malattie per il ripristino dello stato quo ante.
È un diritto fondato sulla certezza erogativa dei livelli essenziali di assistenza sociosanitaria (i Lea), quale strumento “specializzato” nella resa della salute attraverso i livelli essenziali delle prestazioni (i Lep). Dunque, un diritto che sta all’apice della vita delle persone, costituzionalmente sancito, che è però alla continua ricerca dei mezzi necessari finanziari per garantirlo, con lo scopo di ridurre ogni diseguaglianza.
Insomma, necessita portare a regola il contrario di quanto stia avvenendo da oltre vent’anni con i diseredati a pagare il conto e la tendenza ad un verosimile peggioramento.
Ciò a causa di un Servizio sanitario nazionale obsoleto sul piano organizzativo e gestorio – lasciato in mano a dei manager ampiamente superati nelle conoscenze occorrenti (che poi peraltro sono i circa 270 che girano il Paese portandosi dietro default inenarrabili prodotti da una regione all’altra e da azienda sanitaria all’altra) – che necessiterebbe di una riforma strutturale radicale. Pertanto, un dovere irrinunciabile del Parlamento di riscrivere il tutto, tenuto conto degli sprechi nella sanità pubblica, delle generosità eccessive usufruiti ad abundantiam dalla sanità privata accreditata e contrattualizzata, dell’incontrollato e incentivato consumo dei farmaci, dell’incomprensibile organizzazione della assistenza affidata ai medici di famiglia che non sono più tali da oltre un decennio.
In sintesi, occorre intervenire decisamente su tutto ciò che è causa, oltremodo visibile ma spesso dolosamente trascurata, di dispersione di quattrini e di penalizzazione delle persone fragili e di quelle economicamente deboli.
La gratuità per l’indigente
Quanto alla mission del sistema istituzionale, è appena il caso di ricordare che il tema più appassionante, ma meno approfondito, del contenuto dell’art. 32 – che la Costituzione dedica alla salute della Nazione decisamente allargata e onnicomprensiva – è quello espresso nella lettera del secondo periodo del comma primo con una “e” congiunzione posta immediatamente dopo una virgola. Uno scrivere apparentemente imprevedibile per gli uomini di grande cultura che componevano l’Assemblea Costituente. Quel binomio “virgola e congiunzione” era infatti da ritenersi, ieri come oggi, non una leggerezza grammaticale bensì l’esercizio di un urlo politico, funzionale a ritenere indissolubilmente unito il diritto fondamentale con una esigibilità universale certa e reale, del tipo: badate bene, l’esigibilità di un diritto (la salute) deve essere gratuita per l’indigente!
In buona sostanza, concretizzava un passamano dei vari Pertini, De Gasperi, Togliatti e Nenni – per non dire tutti – alla politica in senso proprio e pratico, quale soggetto istituzionalmente impegnato in Parlamento a determinare e fissare in progress l’entità dell’indigenza, cui garantire gratis in ogni momento di povertà/ricchezza nazionale l’assistenza sociosanitaria finalizzata, ben inteso alla Salute. In quanto tale da impegnare legislativamente tutto ciò che producesse prevenzione e, ovviamente, cura delle patologie e, ove possibile, riabilitazioni rispetto agli esiti negativi eventualmente residuati.
Una riscrittura radicale della disciplina della tutela della salute
Al riguardo, la riforma deve assumersi il difficile compito di riscrivere le regole della concorrenza amministrata, intesa nel senso di lasciare convivere – con medesimo titolo qualificativo in termini di idoneità (accreditamento istituzionale) l’erogazione pubblica e quella privata, con quest’ultima abilitata (mediante contratto con le Asl) ad erogare prestazioni a carico del Ssn – la sanità pubblica con quella pubblica che non lo è affatto.
Un tale compito sarà ben difficile da raggiungere uno stato di condivisione politica, anche per il decisionismo che necessita per risolvere la condizione comatosa in cui si trova la sanità pubblica. Una situazione venutasi a creare a seguito di disattenzioni legislative poste a sua tutela, di concessioni progressive di favor nei confronti dei grandi gruppi di interesse della sanità privata, soprattutto di quella erogatrice di Lea di spedalità.
Non solo, con evidenti trascuratezze e imperdonabili “sviste”, non sempre disinteressate, principalmente su:
– un Servizio sanitario ineguale e segnatamente ibrido fondato soprattutto sulla erogazione che assicurano le fondazioni pubbliche (21) e quelle private (31) sotto la intervenuta qualificazione di IRCCS, che non sono affatto strutture facenti riferimento diretto e dipendente dalle aziende sanitarie, obbligate queste ultime a rendere assistenza socio-sanitaria, ma un di più segnatamente rilevante;
– un sistema della salute che registra più emigrazione di quanto abbia fatto l’assenza di lavoro al Sud nel dopoguerra, spostando “ricavi” di 4.5 miliardi l’anno dal sud del Paese al nord soprattutto perché pieno zeppo di IRCCS attrattivi (basti pensare che la sola Lombardia ne ha 14 su 51 esistenti);
– una disciplina che mette insieme il Ssn con il sistema universitario (d.lgs. 511/1999) tenuta in considerazione peggio di come fanno i giovani di oggi con le raccomandazione dei genitori. Un vulnus gravissimo che fa di 31 strutture operanti come universitarie 30 sedicenti Aziende Ospedaliere Universitarie (AOU), con gravi lesioni del diritto e delle aspettative dell’utenza ingannata da una offerta autoproclamatasi indebitamente universitaria, con conseguente violazione anche di norme penale;
– la generazione di accreditamenti (art. 8 quater del d.lgs. 502/1992) e contratti (art. 8 quinques), nettamente non corrispondenti a strumenti di programmazione delle esigenze dettate dalle eventuali carenze, rispettivamente rilasciati e conclusi in barba alle procedure cautelative della migliore offerta quali-quantitativa sancite dalle leggi sulla concorrenza pretese dall’UE, che si lasciano prorogare con gravi danni pubblici. A proposito, è sufficiente rendicontare quanto avvenuto e avviene in alcune regioni, soprattutto la Calabria, per rendersi conto del fenomeno nettamente al di fuori di parametri di normalità programmatica e burocratica;
– la tutela dalle liste di attesa che, nella sostanza, negano il principio costituzionale del diritto alla salute, con i ritardi che si generano negli accertamenti diagnostici, principalmente di quelli per immagini a tecnologia avanzata, e delle visite specialistiche. Handicap gravissimi, questi, che mettono in serio pericolo di vita centinaia di migliaia di persone all’anno. Una situazione, quella appena sottolineata, che rende impossibile la quotidianità ai non autosufficienti e alle persone affette da patologie croniche, incrementate notevolmente nel post Covid;
– le disparità regionali, che rappresentano quanto di più incostituzionale si possa immaginare trattandosi di salute, sulle quali si esercita la peggiore politica, spesso utilizzata per vendere miglioramenti assistenziali che non ci sono e vittorie sul campo pieno zeppo di caduti. A tal proposito, è completamente da rivedere, ma non certo da eludere, il sistema del commissariamento ad acta di cui all’art. 120, comma secondo, della Costituzione per quelle Regioni incapaci strutturalmente ad assicurare l’assistenza sociosanitaria adeguata. Sono diverse le Regioni, fatte indebitamente uscire dalla condizione di surrogazione del Governo (prime fra tutte il Lazio), solo perché collaborate dalla politica e da una inconcepibile benevolenza del MEF. Il tutto con il risultato di lasciare i rispettivi cittadini in condizioni pietose e bisognosi di trovare assistenza altrove;
– la metodologia selettiva dei manager delle aziende sanitarie, fondata su una obsolescenza assoluta dei titoli posseduti, non affatto garanti di possesso di capacità gestorie, di conoscenze attualizzate e, di contro, dimostrative di curricula comprovanti trascorsi e reiterati fallimenti.
Un punto importante, meglio fondativo per la definizione delle risorse necessarie all’offerta di salute, sarebbe la revisione del sistema di erogazione delle previdenze non contributive. Più precisamente, delle indennità di accompagnamento che potrebbero assumere una erogazione da perfezionarsi mediante voucher da “scambiare” con erogazioni effettuate dal Servizio sanitario nazionale, attraverso le Asl, per le quale diventerebbero ricavi, attraverso una semplice partita di giro per lo Stato di vederle spostate dal bilancio della previdenza a quella dell’assistenza sociosanitaria.
Ettore Jorio