Lo si sa da sempre il Ssn ha tenuto in scarsa considerazione la salute mentale, nonostante essa sia una branca essenziale per mettere a terra la tutela della salute che la Costituzione pretende che venga assicurata ad ogni individuo. Con la precisazione, che essa deve essere garantita gratuitamente a chi non possiede i mezzi per esigerla.
La salute mentale – beninteso lo stato di benessere psico-fisico della persona – rappresenta, secondo i dettami universali dell’OMS, una condizione ottimale dell’individuo per affrontare con le proprie capacità il da farsi e risolvere le tensioni che la vita gli riserva. E ancora. Che gli consenta di impegnarsi nello svolgimento di un lavoro produttivo, contribuendo così alla vita sociale secondo le prerogative utili alla comunità di riferimento, ricorrendo al suo equilibrio emotivo in uno stato psicologico funzionale a relazionarsi con i suoi simili e con le istituzioni.
Dunque, diventa facile immaginare quanto sia indispensabile che il servizio pubblico sociosanitario assicuri condizioni di vita non suscettibili di generazione di stress condizionanti in negativo la vita delle persone e, ovviamente in presenza di patologie mentali, strumenti assistenziali utili al ripristino delle condizioni di normalità ovvero a alleviarne gli effetti.
Questo è quanto accade a valle del Ssn, nel senso di contributo obbligatorio dovuto all’utenza nazionale strumentale a tutelare la propria salute mentale. Gli esempi dell’inadempimento in tal senso sono molteplici con evidenti trascuratezze sia nel segmento della prevenzione specifica che in quella curativo-riabilitativa, con grandi assenze di programmazione e messa a terra nei confronti del fenomeno delle dipendenze.
Invero, un siffatto tema andrebbe curato anche all’interno del sistema sanitario nazionale. In esso si registrano quotidianamente delle impennate di “genialità folle” nei comportamenti, per molti versi diabolici, tenuti dai management aziendali, che ne stanno facendo una più di Lucifero. Tali eventi, oramai registrabili a tutte le latitudini, con particolare attitudine sviluppatasi in prossimità dei monti adiacenti all’Appennino centrale e quello silano, si evidenziano a causa dello storico difetto selettivo che l’ordinamento assicura nella selezione dei direttori generali delle aziende sanitarie, territoriali e ospedaliere (si tralasciano quelle universitarie, considerato che ve n’è una sola giuridicamente esistente!).
Una classe dirigente messa a capo delle più importanti istituzioni erogative della salute – che registra una diffusione capillare tanto da contare poco meno di 300 direzioni generali – che fornisce quotidianamente esempi non propriamente all’altezza dei suoi compiti, sino ad arrivare a veri e propri stati confusionali. Il più delle volte causati da deliri di onnipotenza, tanto da farla ritenere abilitata a tradire la Costituzione, a violare spregiudicatamente le leggi dello Stato, a schiacciare disumanamente i diritti degli operatori dipendenti fino a praticare veri proprio reati di mobbing e a mettere crudelmente sotto i piedi i criteri di certezza assistenziale da garantire all’utenza tutta.
Comportamenti, questi, gravissimi, soprattutto quello di fare supporre ai cittadini, ricorrendo a nomine di “primari” in dispregio alla selezione da doversi effettuare attraverso concorsi pubblici, di essere assistiti da operatori resi idonei a praticare l’attività ospedaliera a seguito di procedure agonistiche. Non solo. Con grave lesione delle aspettative delle progressioni delle carriere ai dirigenti aiuti in organico da perfezionare attraverso procedure concorsuali.
Un grave inadempimento, che peraltro potrebbe verosimilmente integrare gravi ipotesi di reato perfezionate in associazione persino con università, nei confronti del quale meraviglia l’assenza di una intensa manifestazione di dissenso sindacale nazionale, tale da consentire a taluni DG di perseverare incoscientemente in comportamenti non propriamente saggi (fortunatamente in pochi), nonostante esposti proposti all’attenzione delle Procure delle Repubbliche e a quelle della Corte dei conti.
Ettore Jorio